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Quell’intercettazione fantasma sulla strage

Quell’intercettazione fantasma sulla strage

Un’affermazione clamorosa del presunto terrorista Paolo Bellini su una pista alternativa nell’attentato di Bologna del 1980 è passata sotto sostanziale silenzio nei grandi media. Invece, si è preferito dare spazio alle vicende personali del condannato che l’hanno portato in prigione. Con una preoccupante scambio nell’importanza dell’informazione.


C’è una intercettazione, agli atti del recente arresto di Paolo Bellini, condannato all’ergastolo per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, che è incredibilmente passata sotto silenzio. Nelle paginate che i quotidiani hanno riservato al trasferimento in carcere a Spoleto dell’ex affiliato di Avanguardia nazionale (si trovava già agli arresti domiciliari) non c’è traccia di una frase, in dialetto veneto, che è stata trascritta dagli investigatori e si può incrociare nella richiesta di misura cautelare firmata il 14 giugno scorso dal procuratore generale facente funzioni di Bologna, Lucia Musti.

Dice Bellini, mentre è da solo in casa, ignaro della presenza delle microspie piazzate dalle procure di Caltanissetta e Firenze che lo tengono sotto stretta sorveglianza per il filone sulle stragi mafiose degli anni Novanta, in cui pure risulta indagato: «È stato uno sbaglio di un corriere che trasportava la bomba». Gli stessi inquirenti non aggiungono altro essendo più interessati alle minacce da lui rivolte al giudice che lo ha destinato al carcere a vita e all’ex moglie, diventata la teste principale d’accusa che in lui ha riconosciuto il passante coi baffi immortalato dal video di un turista tedesco poco minuti dopo l’eccidio, girato tra le macerie fumanti.

La donna, Maurizia Bonini, in un primo momento aveva dichiarato che, nel giorno della mattanza, il marito era con la famiglia a Rimini per organizzare il viaggio al Passo del Tonale, nel Bresciano. Con la separazione – Bellini la definisce una «faida» dovuta anche a un presunto tradimento di lei – le sarebbe però tornata la memoria e con questa la certezza che il 2 agosto del 1980 il consorte sarebbe stato sì a casa ma in un orario compatibile con l’organizzazione dell’attentato, che causò 85 vittime e oltre 200 feriti. Non più al mattino, ma all’ora di pranzo.

Delle intimidazioni e dei soliloqui di Bellini i media riportano ogni singola virgola, ma nulla viene aggiunto riguardo al «corriere». Perché? E che cosa vuol dire con quelle parole? Bellini è stato uno storico esponente della galassia neofascista, inserito – secondo i magistrati che gli hanno dato la caccia per quasi mezzo secolo – in quell’area grigia in cui criminalità organizzata e servizi segreti deviati si fondono e si confondono. Sarebbe stato al contempo killer della ’ndrangheta e «suggeritore» di Cosa nostra della strategia di attacco al patrimonio artistico nazionale nel 1992-1993, oltre che infiltrato speciale in alcune non meglio chiarite operazioni. Una vita al limite così riassunta dalle toghe emiliane: «La sua è una figura che riaffiora più volte in un trentennio di storia italiana, sempre in correlazione a vicende criminali caratterizzate da opacità ed efferatezza, ogni volta in una veste diversa».

Un conoscitore, e probabilmente un promotore, di patti inconfessabili nella stagione degli Anni di piombo che ancora pesano sulla sua coscienza. Tanto che nelle intercettazioni si lascia andare a uno sfogo dai contorni inquietanti. «Io ho sopportato quarant’anni a stare zitto, tutto il fango che mi hanno buttato addosso per quarant’anni, quel gruppo specializzato […] infamità nei miei confronti e nei confronti di una classe politica particolare, va bene? E non potevo mai contrastarli perché c’era di mezzo un giuramento, va bene?». Quale sia questa promessa di omertà, però, Bellini non lo dettaglia né specifica chi sia il beneficiario della consegna del silenzio a cui ancor oggi lui si sente vincolato. Aggiunge invece il particolare dell’ordigno deflagrato «per sbaglio». Uno sfogo che, tuttavia, le testate progressiste lasciano cadere nell’oblio, probabilmente imbarazzate a dover spiegare che uno dei principali sospettati dell’eccidio di Bologna sembra confermare – mentre è da solo con sé stesso e, quindi, in una condizione di presumibile sincerità – la pista palestinese.

Suggerita tempo addietro non già da faccendieri di quart’ordine o da pentiti inaffidabili, ma da un ex presidente della Repubblica. È stato Francesco Cossiga, agli inizi del Duemila, a parlarne infatti per la prima volta, prendendo pubblicamente la difesa di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, i due appartenenti ai Nuclei armati rivoluzionari condannati in Cassazione per la strage, e a chiamare in causa i terroristi del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FplP). «La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della “resistenza palestinese” che, autorizzata dal “lodo Moro” a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo» ribadì il «Picconatore» in una intervista al Corriere della Sera nel luglio 2008. «Quanto agli innocenti condannati, in Italia, i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche e le sentenze politiche». Aggiungendo poi: «[…] divenni presidente del Consiglio poco dopo e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così. Anche le altre versioni che raccolsi collimavano…».

C’è da aggiungere che Cossiga non è stato l’unico a credere a questa ricostruzione. Anche il giudice Rosario Priore, che ha indagato sui più importanti segreti d’Italia, è convinto che le impronte digitali sull’eccidio siano diverse da quelle dei nostalgici del Ventennio, e conducano ai gruppi di guerriglia che giravano attorno a Yasser Arafat tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Autorizzati dal «lodo Moro» a trasportare e commercializzare armi ed esplosivo sul territorio italiano in cambio dell’immunità del nostro Paese ai loro piani di attacco.

In effetti un procedimento sulla pista palestinese fu aperto e archiviato dai pm felsinei, ma partiva dall’assunto che la bomba fosse stata volontariamente piazzata dai feddayn nella sala d’aspetto della stazione come forma di ritorsione contro l’Italia. Suggestione smontata non solo dai documenti del Sismi dell’epoca ma anche dai risultati delle indagini collaterali. Nessuno ha però mai voluto battere il sentiero scosceso dell’errore umano nella fase di trasporto delle valigette di tritolo e nitroglicerina di cui parlano Cossiga e, da ultimo, Bellini. Potrebbe occuparsene la commissione d’inchiesta parlamentare, la cui istituzione è già diventata terreno di scontro tra maggioranza e Pd, ma molto dipenderà dalla volontà del centrodestra di aprire un fronte di battaglia politica e investigativa su temi estremamente polarizzati e sensibili nell’opinione pubblica. Ma la verità, si sa, non si decide a maggioranza.

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