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Il magistrato sbaglia, lo Stato paga

Il magistrato sbaglia, lo Stato paga

Storie spesso incredibili di innocenti dichiarati «colpevoli». Ogni anno in Italia aumentano i casi di errori giudiziari (sono stati mille soltanto nel 2019). Le conseguenze, oltre alle decine di milioni di euro in risarcimenti, sono le vite stravolte e la fiducia dei cittadini nella giustizia sempre più minata. Intanto la Corte europea dei diritti dell’uomo, dove sono aperti migliaia di ricorsi contro il nostro Paese, ci continua a condannare.


«Ho passato 21 anni in una cella due metri per tre, cercando di non morire e di trovare le forze per lottare. In quel loculo, però, io non ci dovevo trascorrere neanche un giorno. Quando sono stato arrestato mio figlio aveva 45 giorni. È diventato maggiorenne senza di me. A causa di un errore giudiziario, ho perso metà della mia vita dietro le sbarre». Parla così il pugliese Angelo Massaro, che oggi ha 54 anni, e cerca di vivere la sua seconda esistenza.

La prima è stata interrotta il 10 ottobre del 1995, quando un suo amico scomparve all’improvviso nelle campagne del Tarantino e «dopo sette mesi mi vennero ad arrestare. Una parola che avevo detto a mia moglie in dialetto venne mal interpretata da chi stava intercettando. Venni fermato con l’accusa di omicidio premeditato, e rinviato a giudizio per quanto la mia innocenza fosse chiara. Sono stati commessi degli errori gravissimi sia in fase di indagine che in fase processuale, non so se per incompetenza o malafede. A volte penso che volevano solo “un” colpevole, non “il” colpevole».

Quello di Massari è solo uno tra tanti casi. Nella sua storia c’è una sintesi dell’interminabile sequenza di errori giudiziari che ogni anno distruggono la vita di centinaia di persone, e minano la stima nei confronti della magistratura. C’è infatti chi viene condannato in via definitiva e poi assolto dopo anni con un processo di revisione, ma anche chi, dopo essere colpito da ordinanze di custodia cautelare in fase di indagini, si rivela del tutto estraneo alla vicenda.

Secondo i dati raccolti dal ministero della Giustizia e presentati dal ministro Alfonso Bonafede in Parlamento, nel solo 2019 l’Italia ha pagato oltre 43 milioni di euro per ingiusta detenzione. Una cifra, peraltro, sottostimata secondo l’associazione Errorigiudiziari.com, fondata da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, che da oltre 20 anni si occupa del fenomeno monitorando i tanti casi di malagiustizia del nostro Paese. «Tutto è cominciato» raccontano Maimone e Lattanzi a Panorama «quando ci siamo interessati al caso di Enzo Tortora e a quello di Lanfranco Schillaci, accusato di abusi sulla figlia di due anni e mezzo. La piccola aveva delle perdite di sangue dal retto e l’uomo venne incriminato per averla abusata. Ma si trattava di un tumore».

Oltre i casi più eclatanti, esiste una ragnatela di vittime silenziose. A confermarlo sono i numeri: solo l’anno scorso sono stati mille i casi di ingiusta detenzione contro gli 895 del 2018. Protagoniste indiscusse le corti d’Appello di Roma, Reggio Calabria e Napoli, dove si concentra oltre un terzo degli episodi: 105 nel primo caso, 120 nel secondo, 129 nel terzo. Nel solo capoluogo campano ogni tre giorni (festivi compresi) è stato autorizzato un indennizzo per ingiusta detenzione. Il record di pagamenti più esosi, invece, spetta al distretto calabrese: nel 2019 ha versato risarcimenti per 9,8 milioni di euro.

La cifra diventa incredibile se si considera che dal 1991 – quando è partita la rilevazione – al 31 dicembre 2019, i casi totali sono stati 28.893 per una spesa complessiva dello Stato che, tra indennizzi e risarcimenti, è arrivata a 823.691.326,45 euro. A fronte di questi numeri drammatici, però, i magistrati finiti sott’inchiesta per illecito disciplinare sono tutt’altro che una valanga. Negli ultimi tre anni le azioni promosse sono state solo 53 e nessun ammonimento è arrivato.

Intanto, centinaia di persone come Angelo Massaro si sono ritrovate la loro vita interrotta per anni. Tra queste c’è Remo Brunella, arrestato per tre rapine aggravate, una delle quali culminata in un tentato omicidio. Le vittime delle aggressioni sostenevano di averlo riconosciuto da una sua foto segnaletica. Solo dopo oltre 200 giorni di carcere è stato assolto perché estraneo alla vicenda: gli verrà riconosciuto un risarcimento di 53 mila euro. Ma c’è anche il poliziotto Franco Bernardini. Un collega, geloso di una donna di cui entrambi erano innamorati, lo accusa falsamente di far parte di una banda specializzata in immigrazione clandestina. Risultato: 34 giorni in carcere e 35 ai domiciliari, prima dell’indennizzo di circa 13 mila euro.

L’ex ambulante incensurato Antonio Romeo, invece, è finito agli arresti per un anno e mezzo perché si pensava avesse rapporti con la ‘ndrangheta a causa di un’intercettazione male interpretata. Alla fine ha avuto diritto a un indennizzo di 63 mila euro.

È in attesa di risarcimento, invece, Andrea Perulli: accusato di aver violentemente aggredito un anziano per derubarlo, a Lecce, nonostante i giudici si rendano conto della sua assoluta estraneità al fatto, dovrà aspettare – dopo 180 giorni agli arresti domiciliari – il riconoscimento personale da parte della vittima in un’aula di tribunale.

Stessa situazione per Tatiana Tarantino: l’ispettrice del lavoro toscana è stata accusata da un’imprenditrice cinese di aver intascato mazzette per ammorbidire i controlli. Solo dopo nove giorni ai domiciliari, ci si è resi conto che lei neanche se avesse voluto avrebbe mai potuto farlo dato che quel giorno si trovava in aereo.

Storie analoghe a queste non si contano. «Secondo quanto ci risulta» spiega Maimone «solo il 70 per cento delle richieste di risarcimento viene accolto: spesso si cerca un capro espiatorio per rigettare l’istanza poiché, da quanto rivelano alcune segnalazioni che ci giungono, il ministero non ha soldi».

Un cavillo del Codice penale prevede, infatti, che l’indennizzo non sia riconosciuto quando l’indagato ha «concorso a indurre in errore il giudice». Da qualche anno, tuttavia, tale circostanza si verifica anche quando questo si avvale della facoltà di non rispondere alle domande degli inquirenti: quello che è un sacrosanto diritto del Codice penale finisce così per divenire l’ennesimo scandalo. E soprattutto riesce a demoralizzare chi cerca di intraprendere un’iniziativa per tutelarsi. Non tutti infatti hanno la forza e le energie per avviare la corsa a ostacoli che porta alla verità. Anche perché gli indennizzi, a conti fatti, non sono così proporzionati: per un giorno in carcere il risarcimento è pari a circa 235 euro, la metà se si finisce ai domiciliari. E comunque c’è un tetto massimo: non si può andare oltre i 516 mila euro.

Considerata la tendenza, è inevitabile che, per chi viene condannato in via definitiva, l‘unica e ultima soluzione sia rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. E anche qui l’Italia non brilla affatto. A oggi i ricorsi pendenti a Strasburgo contro il nostro Paese sono 4.050: siamo quinti dopo Paesi non proprio rinomati in fatto di diritti civili come Russia, Romania, Ucraina e Turchia.

Sulle 14 sentenze emesse nel 2018 (ultimo dato disponibile), 11 hanno ravvisato almeno una violazione. Non è un caso, allora, che l’Italia si riscopra al terzo posto (dopo Russia e Turchia) nella classifica dei Paesi con maggior numero di sentenze pronunciate a proprio carico (2.396) e maggior numero di violazioni dei diritti umani, dal 1959 a oggi. Tutto questo, ovviamente, si traduce in risarcimenti da pagare: nel 2018 sono stati liquidati indennizzi per un totale di 18,7 milioni di euro, ben al di sopra dei 4,5 dell’anno precedente. Se si considera il dato a partire dal 2010 la somma è ingente. Alle cifre corrisposte per ingiusta detenzione, si sommano altri 223 milioni comminati da Strasburgo. «Il danno morale» riflette Massaro «però non si può quantificare. Per quanto abbia chiesto un risarcimento di 20 milioni di euro, nessuno potrà ridarmi la mia vita e la mia dignità. Nel mio paese c’è ancora chi mi guarda con sospetto perché sono stato in galera. Ho chiesto a chi ha sbagliato di organizzare una conferenza stampa per scusarsi. Nessuno mi ha considerato».

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