In queste ore l’attenzione pubblica sembra concentrarsi quasi esclusivamente sull’arresto di Mohammed Hannoun, come se l’operazione giudiziaria potesse chiudere definitivamente una vicenda complessa. È l’ennesima onda emotiva, utile a semplificare il racconto: un nome, un provvedimento, il caso archiviato. Ma fermarsi qui significa non guardare il sistema che per anni ha consentito a una figura centrale dell’ecosistema di Hamas in Italia di muoversi, raccogliere fondi, costruire consenso e relazioni politiche. Le carte dell’inchiesta genovese raccontano infatti molto di più. «La maggior parte dei soldi vanno… alla Mugawama», la resistenza armata di Hamas. E ancora: «Noi ci sacrifichiamo con i soldi e con il tempo, ma loro con il sangue». Le frasi attribuite a Mohammed Hannoun e ai suoi interlocutori non sono, per il gip di Genova Silvia Carpanini, slogan o ambiguità lessicali, ma la prova della piena consapevolezza della reale destinazione dei fondi raccolti in Italia. Non assistenza umanitaria, ma sostegno diretto all’organizzazione terroristica. Secondo la ricostruzione contenuta negli atti, il denaro non era destinato «solo ed esclusivamente ad alimentare le attività sociali» del movimento, ma anche «alle esigenze operative dell’ala militare», al sostegno «delle famiglie dei martiri, dei feriti e dei prigionieri». Un circuito che, per l’accusa, non rappresenta semplice welfare, ma una componente strutturale del meccanismo che alimenta la lotta armata. I numeri messi in fila da Guardia di finanza e Polizia sono netti: almeno «il 71 per cento delle uscite» delle associazioni riconducibili agli indagati sarebbe finito ad Hamas o a soggetti «comunque riferibili» al movimento. Le intercettazioni rafforzano questo quadro. In uno dei dialoghi agli atti, un indagato sintetizza così la divisione dei ruoli: «Noi ci sacrifichiamo con i soldi e il tempo, ma loro con il sangue». Per la Procura è la rappresentazione esplicita di un sistema in cui chi raccoglie fondi dall’estero sa perfettamente di sostenere chi combatte sul terreno.
A rendere ancora più solido l’impianto accusatorio sono i rapporti diretti con il vertice di Hamas. Le carte dedicano un capitolo specifico agli incontri tra Hannoun e Ismail Haniyeh, ucciso da Israele nel luglio 2024 mentre si trovava in Iran. La conoscenza tra i due è documentata da fotografie che li ritraggono insieme in incontri ufficiali, ma anche da intercettazioni e dichiarazioni pubbliche dello stesso Hannoun. Dopo la morte di Haniyeh, l’indagato rivendica quel rapporto in un intervento trasmesso sui social e seguito in diretta anche nei locali dell’associazione, affermando di averlo visto l’ultima volta «un mese prima». Già il 30 aprile 2024, parlando in auto con la moglie e la figlia, Hannoun riferisce di essere stato convocato: «Mi hanno detto che vogliono vedermi, andrò a vedere Ismail», usando il soprannome Abu al Abed. Per la Procura, una frase indicativa di una chiamata proveniente dall’organizzazione cui l’indagato viene ritenuto appartenere. L’incontro, inizialmente rinviato, si sarebbe poi svolto a Doha, alla presenza di altri esponenti di primo piano del movimento jihadista. Il quadro si allarga ai contatti sul territorio italiano. La cellula riconducibile a Hannoun aveva diversi riferimenti: tra i nomi citati (non indagato) compare in più conversazioni l’imam di Torino Mohamed Shahin. In alcune intercettazioni emerge anche la preoccupazione per l’indagine in corso. «Se ad Abu Rashad gli hanno dato un anno, a noi ci daranno sei anni», dice Abu Falastine (Mousa Dawoud Ra’Ed Hussny), ipotizzando il ritrovamento di computer e documenti compromettenti. Da qui prende forma la “pulizia” dei file: cancellare archivi, salvarli su chiavette, affidarli a persone fidate. «Sto pensando anche di rompere il pc dell’ufficio», dice uno degli indagati. «Non lasciare nulla», insiste un altro.
È in questo contesto che matura il progetto di spostare all’estero l’intera operatività. Le intercettazioni e l’ordinanza parlano di un piano già molto avanzato: conservare i file «a Istanbul», aprire conti correnti fuori dall’Italia, trasferire archivi e documentazione in Turchia dove Hamas fa il bello e il cattivo tempo. Da mesi il ruolo della Turchia nella galassia finanziaria di Hamas è al centro di accuse e tensioni diplomatiche, ma una domanda resta senza risposta: quanti soldi del movimento islamista sono davvero depositati nelle banche turche? La risposta, ad oggi, è che non esiste una cifra ufficiale e verificata. Le stime più elevate circolate sui media derivano da dichiarazioni politiche israeliane. In particolare, Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha sostenuto che l’ex leader di Hamas Ismail Haniyeh ( al pari degli altri capi di Hamas) , avrebbe accumulato fino a 3 miliardi di dollari custoditi anche in Turchia. Ankara ha però respinto le accuse, negando come sempre l’esistenza di conti riconducibili all’organizzazione.
La Procura di Genova evidenzia come Hannoun disponesse di un passaporto turco, di un conto bancario e di due abitazioni a Istanbul ( valore 1.3 milioni di euro), e come negli ultimi mesi avesse programmato la partenza, con l’intenzione di essere raggiunto a breve dalla famiglia. Da qui il riferimento a un «concreto e attualissimo pericolo di fuga» e a un progetto per «spostare l’attività dell’associazione» in un Paese dove l’indagato «avrebbe potuto operare senza difficoltà», facendo arrivare fondi ad Hamas senza più la necessità di mascherarli come aiuti umanitari. Ed è proprio qui che l’enfasi esclusiva sull’arresto rischia di trasformarsi in un alibi collettivo. Perché la storia non riguarda solo un singolo uomo, ma un sistema di relazioni, coperture e legittimazioni che per anni ha operato alla luce del sole. Viaggi, eventi pubblici, incontri, applausi, presenze politiche in prima fila: un mondo che ha garantito spazio e visibilità a un architetto della rete di Hamas in Italia. Un mondo che oggi resta in larga parte inesplorato e che va assolutamente indagato. L’arresto segna un passaggio giudiziario importante, ma non chiude la vicenda. Al contrario, apre una domanda più ampia e scomoda: chi per tutti questi anni ha consentito tutto questo? E perché quella rete, ancora oggi, sembra restare ai margini del dibattito pubblico.
