Diciotto anni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, il caso di Garlasco torna a far rumore. E con esso, una domanda che pesa come un macigno: e se Alberto Stasi fosse innocente?
Condannato a 16 anni di carcere, l’eventuale revisione del processo aprirebbe uno squarcio devastante nel sistema giudiziario italiano, sollevando non solo lo spettro di una delle più gravi ingiustizie recenti, ma anche la prospettiva concreta di un maxi-risarcimento da parte dello Stato.
Non sarebbe la prima volta. I casi di Enzo Tortora, Giuseppe Gulotta, Beniamino Zuncheddu e molti altri dimostrano che in Italia si può finire in carcere da innocenti, vittime di indagini affrettate, processi imperfetti e pregiudizi mediatici. Anni, a volte decenni, rubati. Famiglie distrutte. Esistenze rovinate. E poi, solo alla fine, un risarcimento. Milionario, sì, ma mai abbastanza per restituire il tempo perduto.
Secondo i dati ufficiali raccolti da errorigiudiziari.com, tra il 1991 e il 2022 lo Stato ha versato oltre 86 milioni di euro per ingiuste detenzioni. Ma il vero costo non si misura in denaro. Si misura in anni di libertà cancellati, in identità infangate, in silenzi pieni di rabbia.
Ecco alcuni dei casi più eclatanti, che raccontano un’Italia dove la giustizia, troppo spesso, ha chiesto scusa troppo tardi.
Enzo Tortora – 7 mesi di carcere e un processo durato quattro anni
Nel 1983, il celebre conduttore televisivo Enzo Tortora fu arrestato con accuse infondate di traffico di droga e legami con la camorra, basate esclusivamente sulle false dichiarazioni di alcuni pentiti. Dopo sette mesi di detenzione e un lungo processo, fu assolto con formula piena nel 1987. Tornato in tv, la sua salute però era ormai compromessa: morì l’anno seguente per un tumore al polmone, diventando simbolo della lotta contro gli abusi giudiziari.
Il suo caso scatenò un forte dibattito sulla responsabilità dei magistrati e portò, nel 1988, alla legge Vassalli, che introdusse il risarcimento per danni causati da errori giudiziari, seppur con limiti importanti e senza applicazione retroattiva. Di conseguenza, nessun risarcimento fu mai riconosciuto alla famiglia Tortora.
Daniele Barillà – 7 anni e mezzo in carcere
Nel 1992, l’imprenditore Daniele Barillà venne arrestato per un caso di scambio di persona: la sua Fiat Tipo, identica a quella usata da un narcotrafficante seguito dai carabinieri del Ros di Genova, lo portò a essere coinvolto in un’operazione antidroga in cui vennero sequestrati 50 kg di cocaina. Nonostante fosse un rispettabile uomo d’affari con una propria azienda e quindici dipendenti, Barillà fu ingiustamente condannato a 15 anni di carcere, accusato di essere un pezzo grosso della malavita milanese. Questa condanna gli costò tutto: l’azienda, la fidanzata e anche la vita del padre, morto di crepacuore.
Dopo oltre sette anni di detenzione, la verità emerse quando nel 1997 vennero scoperti illeciti da parte del tenente colonnello del Ros coinvolto nel suo arresto. Barillà fu scarcerato nel 1999 e assolto definitivamente nel 2000 “per non aver commesso il fatto”. Nel 2007 ottenne un maxi-risarcimento di circa tre milioni di euro, a compensazione tardiva di un’ingiustizia devastante.
Maurizio Bova – quasi 20 anni di carcere
Maurizio Bova, originario di Somma Vesuviana, ha vissuto un vero incubo giudiziario durato quasi vent’anni. Condannato all’ergastolo nel 1997 per l’omicidio del boss Antonio Ferrara e il tentato omicidio di Domenico Ferrara, reati avvenuti nel 1994, Bova ha trascorso 19 anni, sette mesi e 20 giorni in carcere. La svolta arrivò quando un collaboratore di giustizia, inizialmente accusato insieme a lui, si autoaccusò dei crimini scagionando Bova.
Il percorso legale è stato complesso: dopo la condanna iniziale, la richiesta di revisione fu inizialmente respinta dalla Corte d’Appello di Roma nel 2011, ma la Cassazione nel 2012 annullò questa decisione. Nel 2014, la Corte d’Appello di Perugia lo assolse definitivamente. A conclusione della vicenda, a Bova è stato riconosciuto un indennizzo di oltre 2 milioni di euro per il danno subito, una cifra importante ma incapace di restituire gli anni ingiustamente trascorsi in prigione.
Saverio De Sario – 3 anni di carcere
La vicenda di Saverio De Sario, autotrasportatore sardo, è uno degli errori giudiziari più dolorosi degli ultimi anni. Trasferitosi a Brescia con la famiglia, fu accusato di abusi sessuali sui propri figli, a seguito di una denuncia presentata dalla moglie. Le testimonianze dei bambini, raccolte in tribunale, sembravano confermare le accuse, portando a una condanna a undici anni di reclusione.
Nel 2015, però, i figli di De Sario ritrattarono le loro dichiarazioni, ammettendo di essere stati influenzati dalla madre. Questa clamorosa retromarcia aprì la strada a un processo di revisione, che si concluse con l’assoluzione dell’uomo perché “il fatto non sussiste” e la sua immediata scarcerazione.
Per il grave danno subito, De Sario aveva chiesto un indennizzo di 1,5 milioni di euro, ma la Corte d’Appello di Perugia gli riconobbe un risarcimento di 400mila euro, comprensivo di oltre 250mila euro per i 1.068 giorni di detenzione ingiusta e un supplemento del 40% per le “infamanti accuse” subite.
Giuseppe Giuliana – 9 anni di carcere
Giuseppe Giuliana, bracciante agricolo di Canicattì, ha trascorso quasi un decennio da innocente tra carcere e misure restrittive per un delitto che non aveva mai commesso. Accusato dell’omicidio di un imprenditore a Serradifalco nel 1997, fu condannato in primo grado e poi in appello a 19 anni di reclusione, con l’accusa di omicidio, rapina e detenzione di armi. La Cassazione confermò la sentenza nel 2000, rendendo definitiva la sua condanna.
Giuliana scontò oltre 5 anni in carcere, seguiti da più di 2 anni e mezzo con l’obbligo di dimora e il divieto di espatrio. Solo nel 2014, grazie alla revisione del processo, la Corte d’Assise d’Appello di Catania lo assolse con formula piena, ponendo fine a una lunga e dolorosa ingiustizia. L’anno seguente, la stessa corte gli riconobbe un indennizzo di 500mila euro per il danno morale ed esistenziale subito.
Giuseppe Gulotta – 22 anni in carcere
Giuseppe Gulotta aveva solo 18 anni quando venne arrestato per un crimine che non aveva commesso: l’omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina, avvenuto nel 1976. La sua condanna fu basata su una confessione estorta con torture, come rivelato nel 2007 da un ex militare coinvolto nelle indagini. Nonostante Gulotta si sia sempre proclamato innocente, ci vollero ben 36 anni, nove processi e 22 anni di detenzione prima che la verità emergesse.
Nel 2012, la Corte d’Appello di Reggio Calabria lo assolse definitivamente “per non aver commesso il fatto”, riconoscendo l’ingiustizia subita. Lo Stato italiano gli ha poi riconosciuto un risarcimento record di 6,5 milioni di euro, la cifra più alta mai concessa per un errore giudiziario. Tuttavia, secondo il suo avvocato, Baldassare Lauria, il risarcimento si è limitato a indennizzare i giorni di carcere, senza realmente compensare le devastanti conseguenze personali, morali e psicologiche di un’intera vita stravolta.
Giuseppe Lastella – 11 anni in cella
Tra i più clamorosi casi di malagiustizia spicca anche quello di Giuseppe Lastella, imprenditore barese rimasto ingiustamente in carcere per 11 anni con l’accusa di omicidio. Tutto ebbe inizio nel 1990, quando un pregiudicato, gravemente ferito in un agguato sulla Salerno-Reggio Calabria, fece in punto di morte il nome del presunto aggressore: un “contitolare di autosalone”, che gli inquirenti identificarono in Lastella.
La Corte d’Assise di Cosenza lo assolse, ma in appello a Catanzaro la sentenza fu ribaltata: 30 anni di carcere. I legali di Lastella non si arresero e, dopo una lunga battaglia giudiziaria, la Cassazione accolse la richiesta di revisione. Nel 2004, il nuovo processo si concluse con l’assoluzione piena, confermata in via definitiva dalla Suprema Corte.
Solo nel 2012, Lastella ricevette un primo risarcimento di 600mila euro, successivamente aumentato fino a 1,5 milioni di euro.
Angelo Massaro – 21 anni in carcere
Tra i casi più assurdi di malagiustizia italiana spicca quello di Angelo Massaro, condannato a 30 anni e rimasto in carcere per 21 anni per un omicidio mai commesso. Tutto nacque da una telefonata intercettata nel 1996: mentre lavorava, Massaro usò il termine dialettale muers (un attrezzo pesante), ma gli inquirenti lo interpretarono come muert (“morto”), convincendosi che stesse parlando di un cadavere.
Nonostante fosse totalmente estraneo alla scomparsa dell’amico per cui fu accusato, Massaro venne arrestato il 15 maggio 1996, lasciando la moglie e due figli piccolissimi. Da lì iniziò un calvario durato oltre due decenni. Solo nel 2017, dopo la revisione del processo, arrivò l’assoluzione definitiva e la scarcerazione.
La sua vicenda è diventata simbolo dell’assurdità degli errori giudiziari ed è stata raccontata nel docu-film “Peso Morto”, che denuncia quanto possa essere fragile il confine tra giustizia e ingiustizia.
Domenico Morrone – 15 anni in carcere
Nel 1991, Domenico Morrone, pescatore incensurato di Taranto, fu arrestato con l’accusa di aver ucciso due fratelli minorenni a colpi di pistola davanti a una scuola. Nonostante si dichiarasse innocente e disponesse di un alibi supportato da testimoni, fu condannato a 21 anni di carcere. Persero credibilità anche i familiari che avevano confermato il suo alibi: furono condannati per falsa testimonianza.
Morrone trascorse 15 anni in carcere prima che due collaboratori di giustizia scagionassero completamente l’uomo, indicando come responsabile un noto pregiudicato già detenuto (i due fratelli erano stati uccisi dopo aver compiuto uno scippo a una donna). Il 22 aprile 2006 fu assolto con formula piena. A titolo di risarcimento, lo Stato gli riconobbe 4,5 milioni di euro.
Beniamino Zuncheddu – 33 anni in carcere, il più lungo errore giudiziario in Italia
Nel 1991, Beniamino Zuncheddu, ex pastore sardo, fu condannato all’ergastolo per una strage avvenuta a Sinnai, dove furono uccisi tre pastori. L’unica prova a suo carico era la testimonianza del superstite, poi rivelatasi viziata: un poliziotto, Mario Uda, gli aveva mostrato la foto di Zuncheddu prima del riconoscimento, indicandolo già come responsabile e influenzandone la memoria.
Dopo quasi 33 anni di ingiusta detenzione, una revisione processuale, sostenuta dall’avvocato Mauro Trogu e dalla procuratrice Francesca Nanni, ha portato alla completa assoluzione di Zuncheddu nel gennaio 2024. Si attende ora il risarcimento per quella che è considerata la più lunga detenzione ingiusta nella storia della giustizia italiana. L’indennizzo dovrà tenere conto non solo del tempo trascorso in carcere, ma anche dei danni umani, familiari e psichici irreparabili.
E se Alberto Stasi fosse innocente?
Con la riapertura del caso Garlasco, a quasi 18 anni dal delitto di Chiara Poggi, si riaccende l’attenzione sulla condanna di Alberto Stasi, oggi detenuto dopo una sentenza definitiva a 16 anni per omicidio. Se la richiesta di revisione in corso dovesse portare a un’assoluzione, si configurerebbe un errore giudiziario, con potenziali conseguenze economiche rilevanti per lo Stato.
Alberto Stasi è in carcere dal 2015. A maggio 2025 avrà trascorso 3.650 giorni di detenzione, parte della quale in regime definitivo. Le norme italiane prevedono che, in caso di errore giudiziario riconosciuto, il detenuto abbia diritto a un risarcimento, il cui calcolo – realizzato da TgCom24 – si basa su più voci:
- Detenzione: l’indennizzo medio per giorno di ingiusta detenzione – spiega TgCom24 – può variare tra 600 e 1.000 euro. Su questa base, Stasi potrebbe vedersi riconosciuta una somma tra 2,2 e 3,65 milioni di euro solo per i giorni trascorsi in carcere.
- Danni morali e psicologici: in casi simili, i tribunali hanno riconosciuto importi variabili tra 500.000 e 1,5 milioni di euro, in relazione alla durata della detenzione, all’impatto sulla salute mentale e sulle relazioni personali e professionali dell’ex imputato.
- Spese legali: il lungo iter processuale – con due assoluzioni in primo e secondo grado, la condanna in Cassazione e ora la richiesta di revisione – ha comportato costi elevati per la difesa. Il rimborso previsto per le spese legali potrebbe oscillare tra 200.000 e 500.000 euro.
- Restituzione del risarcimento civile: un altro elemento complesso riguarda gli 850.000 euro già versati da Stasi alla famiglia di Chiara Poggi in sede civile. In caso di assoluzione, Stasi potrebbe avanzare una richiesta di restituzione, ma si tratterebbe di una controversia separata, dalla soluzione incerta. I genitori di Chiara, che si sono sempre detti convinti della colpevolezza, hanno più volte ribadito la loro opposizione a ogni riapertura del caso, sostenendo la validità della sentenza definitiva.
Se Alberto Stasi venisse riconosciuto innocente, lo Stato dovrebbe affrontare un risarcimento che potrebbe superare i 6,5 milioni di euro. Una cifra in linea con i più gravi errori giudiziari della storia italiana.
Ma al di là dei numeri, resterebbe un fatto difficile da ignorare: un uomo ha trascorso in carcere quasi tutta la sua vita adulta per un crimine che potrebbe non aver commesso. E con lui, a essere messo sotto accusa, sarebbe l’intero sistema che lo ha condannato.
