Gli omicidi sono in calo costante (circa 300 l’anno) nel nostro Paese. Certo, ci sono le violenze estreme contro le donne, che negli ultimi tempi sono sotto i riflettori della cronaca. In Europa abbiamo poi tra le statistiche più basse per i delitti, e una diffusione più contenuta delle armi. Numeri alla mano, facciamo chiarezza, oltre le enfatizzazioni che spesso diventano battaglia politica.
Dopo l’eco mediatica suscitata dall’omicidio di Giulia Cecchettin lo scorso novembre, nei sondaggi il Paese risulta scioccato per i delitti di sangue contro le donne e le violenze. Al punto che la maggioranza degli italiani concorda sul non sentirsi affatto tranquillo anche solo a camminare per strada di notte (il 68 per cento). Ma in Italia gli omicidi sono davvero in crescita? La violenza che li genera è aumentata, o è quella «percepita» a condizionare il giudizio delle persone? E a commettere questi reati sono più gli italiani o gli stranieri? Ancora: c’è un rapporto tra il numero di morti violente e la diffusione delle armi? E come siamo messi rispetto agli altri Paesi occidentali? Sono domande legittime, anzi imprescindibili, in una società come la nostra dove i conflitti sembrano moltiplicarsi, sia a causa di un humus di microcriminalità legata a elementi difficilmente inquadrabili (come i reati commessi da immigrati), sia per la cassa di risonanza di molti media rispetto agli episodi di cronaca più efferati, a partire proprio dalla violenza di genere, insinuando il dubbio che il «male» sia tra noi. Eppure, le statistiche reali che si ricavano da ministero degli Interni e Istat, per alcuni versi sorprendenti, smentiscono certi luoghi comuni.
Chiariamo che a commettere gli omicidi in Italia è quasi sempre un uomo (oltre il 90 per cento dei casi), mentre le donne che uccidono sono appena il 6 per cento. Gli uomini ammazzano in prevalenza altri uomini: nel 2023 sono stati 153 su 267, pari a poco meno del 60 per cento. Quanto ai «femminicidi», al netto delle variabili che riguardano inevitabilmente i diversi contesti in cui maturano simili delitti, essi rappresentano l’84 per cento del totale delle morti violente delle donne (altri casi sono riconducibili a eutanasia, movente economico, rapina, etc.). Per loro, dunque, le morti violente avvengono principalmente nell’ambito della coppia, e sempre per mano di un uomo: erano tutti maschi i partner delle 61 donne uccise nel 2022. In ogni caso, il primo e principale movente per un delitto è di gran lunga dettato da «liti, futili motivi, rancori personali» (è così nel 45,3 per cento dei casi); seguono i «motivi economici», inclusi gli omicidi causati da una rapina (14 per cento del totale), dove le vittime maschili hanno un peso decisamente maggiore rispetto a quelle femminili. Mentre il «movente passionale» è responsabile con netta prevalenza di donne uccise. L’età media delle vittime è stabile intorno ai 45 anni per i maschi, mentre per le donne circa 55. Quanto agli stranieri – che costituiscono il 22,46 per cento delle vittime totali di omicidio – sono mediamente più giovani di circa dieci anni: la loro età media è pari a 36 anni per gli uomini e 46 per le donne. Analizzando la relazione tra i sessi e la distinzione tra vittime italiane e straniere, in entrambi i casi emerge che gli uomini uccidono soprattutto altri uomini. Tuttavia, i maschi italiani sono fatalmente violenti con più frequenza sulle donne (44,3 per cento) rispetto agli uomini stranieri (37,9 per cento).
Ai minimi in Europa
Fatto questo preambolo statistico, è importante considerare un aspetto cruciale dei delitti che avvengono nel Paese: da oltre un decennio l’Italia registra i livelli di omicidi più bassi d’Europa. Negli ultimi 30 anni, infatti, le uccisioni da noi sono scese di oltre il 75 per cento: solo 15 anni fa, i morti ammazzati erano più del doppio. Sono stati 611 nel 2008, 586 nel 2009, 526 nel 2010, 550 nel 2011, 528 nel 2012, 502 nel 2013, 475 nel 2014, 469 nel 2015 e 400 nel 2016. Volendo risalire negli anni, le casistiche offrono un quadro ancora più chiaro della pulsione nazionale all’omicidio: nel 1990 i delitti furono 1.794, nel 1991 ben 1.938, nel 1992 se ne contarono 1.476.
Sono cifre fino a cinque volte superiori rispetto a quelle attuali. Si è scesi sotto quota «mille omicidi l’anno» già a metà dei Novanta, per poi non risalire più a quei livelli, digradando verso quota 300 in media da un decennio a questa parte. Cosicché il fatidico «tasso di omicidi», cioè il numero di assassinii ogni 100 mila abitanti (criterio internazionale), è sceso in Italia fino allo 0,5. Il che ci rende il Paese meno delittuoso e, di conseguenza, più sicuro di tutta l’Europa e tendenzialmente del resto del mondo. Meglio di noi nel Vecchio continente fa solo il Lussemburgo (che tuttavia conta appena 640 mila abitanti) e nel mondo ci precede giusto il Giappone, il cui tasso di omicidi è pari allo 0,28. Gli altri grandi Stati europei, invece, registrano tutti valori superiori al nostro: la Germania è intorno all’1 per cento, il Regno Unito all’1,2 e la Francia all’1,3. A Roma, per fare un confronto, nel 2022 sono stati commessi 29 omicidi, assai meno dei 100 di Parigi o dei 179 di Bruxelles (nonostante abbia meno di un terzo degli abitanti di Roma). Niente a che vedere con la Russia, dove il tasso è intorno all’8 o agli Stati Uniti, con il 5,4. Secondo l’Onu, tra tutti i continenti, l’Africa mantiene il numero più alto di assassinii, 176 mila in media l’anno, seguito dalle Americhe (154 mila). Mentre Asia ed Europa si confermano le regioni del mondo con meno omicidi in assoluto.
Armi da fuoco (e da taglio)
Dove invece gli italiani non sono migliori degli altri è nelle modalità utilizzate nei fatti di sangue. Se mediamente il 40 per cento degli omicidi nel mondo è commesso con armi da fuoco e un altro 22 per cento con quelle da taglio (al netto dell’America, dove le morti con armi da fuoco schizzano al 67 per cento), l’Italia non si discosta di molto: nel 2022 pistole e fucili si confermano il mezzo più utilizzato, impiegate nel 37 per cento dei casi, seguite dal 32,6 per cento delle armi da taglio. Prova ne sia l’ennesimo caso di eccesso di legittima difesa, come per il gioielliere Mario Roggero, condannato a 17 anni di carcere lo scorso dicembre per aver colpito a morte due rapinatori del suo negozio. Ciò nonostante, in Italia circolano 1,2 milioni di armi legali, in calo costante da un decennio, la stragrande maggioranza in mano ad appassionati di caccia e di tiro a volo, mentre sarebbero appena 26 mila quelle per la propria difesa (dati Unodc). Da sottolineare, però, che se si considerano gli omicidi della criminalità organizzata, il dato sale al 100 per cento: sono tutti commessi con armi da fuoco, prevalentemente contro uomini, nel 45,4 per cento dei casi, e nel 23,8 per cento contro donne. Altra distinzione rilevante vale per il sesso della vittima. In Italia le donne muoiono soprattutto per ferite da armi da taglio (34,9 contro 31,1 per cento degli uomini), e per omicidio a mani nude: accade nel 30,2 per cento dei casi, esattamente il doppio rispetto agli uomini. Se si considerano invece gli omicidi di stranieri, il dato è opposto: l’arma da taglio è il mezzo prevalente (45,8 per cento dei casi), mentre le armi da fuoco sono utilizzate per il 19,4 per cento.
«Variabile irrazionalità»
Ma se in Italia si ammazza meno che nel resto del mondo, perché invece gli italiani si sentono così insicuri? «Paura e incertezza sono caratteristiche della nostra epoca, spesso alimentate dalle continue emergenze, la pandemia, il conflitto russo-ucraino, le emergenze ecologiche. Vengono così minate le certezze e compromessa la fiducia nel futuro ma anche nel prossimo, verso cui cresce inevitabilmente la diffidenza. È una sensazione d’insicurezza, tuttavia, che non ha sempre un diretto riscontro nella realtà» riflette il prefetto Vittorio Rizzi, vicedirettore generale della pubblica sicurezza, nonché curatore dell’indagine «La criminalità: tra realtà e percezione» realizzata da Polizia criminale ed Eurispes. Aggiunge lo studioso del settore Alberto Pagani, membro dell’assemblea parlamentare Nato: «La nostra percezione di sicurezza non si basa purtroppo soltanto sulle statistiche. Abbiamo paura per la nostra vita, i beni, la nostra posizione sociale, a prescindere dai rischi reali che corriamo, perché si tratta di un sentimento che non ha l’oggettività di un’unità di misura». Sui numeri reali prevale cioè un approccio irrazionale. «Chi ha paura di volare non sale in aereo comunque più tranquillo dopo aver visto, nelle statistiche degli incidenti stradali, che il rischio maggiore lo ha corso per raggiungere l’aeroporto in auto».
