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Ex Ilva, caos totale: i soldi ci sono, ma lo stabilimento non riapre

Ex Ilva, caos totale: i soldi ci sono, ma lo stabilimento non riapre

Taranto e Genova paralizzate dai blocchi sindacali. Bucci: fondi ci sono ma UE vieta aiuti. E a pagare sono i lavoratori

Neanche la lunga telefonata tra il governatore ligure Marco Bucci e il commissario di Acciaierie d’Italia Giancarlo Quaranta riesce a sciogliere il nodo dello stabilimento ex Ilva di Taranto. Al termine di una giornata segnata da cortei e blocchi stradali, Bucci comunica ai lavoratori che i 15 milioni necessari per garantire la fornitura dell’acciaio destinato alla zincatura sono disponibili, ma inutilizzabili: gli aiuti di Stato alle aziende commissariate violerebbero le norme europee. Il governatore ha sentenziato: “Ci hanno confermato che la cifra per la fornitura (dell’acciaio destinato alla zincatura) oscilla intorno ai 15 milioni: i fondi ci sono ma esiste un problema con la legge europea che non consente aiuti di Stato alle aziende in commissariamento”

Un vincolo che congela le speranze di una rapida soluzione: “Io rispetto le leggi come tutto il governo, la pubblica amministrazione rispetta le leggi, ma è un problema che bisogna risolvere. Da domattina continuerò a lavorare per risolverlo, ma non è una cosa facile come invece pensavo fosse, perché la cifra è bassa, è già pronta ma non si può fare, perché sarebbe un’infrazione enorme della legge europea”. Bucci garantisce però che nessun lavoratore andrà in cassa integrazione e che la ripartenza del secondo altoforno di Taranto a febbraio permetterà di riattivare la zincatura genovese. Speriamo, per l’Italia e per i lavoratori, che non siano “promesse da marinaio”.

Dalla fondazione al 2017

La storia dell’acciaieria di Taranto inizia nel 1960 con la posa della prima pietra dell’allora Italsider, impianto siderurgico statale inaugurato nel 1965 dal presidente Saragat. Rimarrà pubblico fino al 1995, quando – già ribattezzato Ilva – viene privatizzato e affidato al gruppo Riva: anni di forte produzione ma anche di crescenti allarmi ambientali e sociali, come il caso della Palazzina Laf.

La svolta arriva nel 2012 con l’inchiesta “Ambiente Svenduto”: il gip sequestra l’area a caldo, mentre i successivi decreti del governo ne consentono la continuità produttiva. Seguono anni di commissariamenti e piani ambientali, fino alla gara del 2017 che assegna lo stabilimento alla cordata Am Investco guidata da ArcelorMittal, tra polemiche e un lungo braccio di ferro con i sindacati.

Gli ultimi tormentati anni

Nel 2021 entra Invitalia con il 38%, dando vita ad Acciaierie d’Italia, ma la convivenza con ArcelorMittal si rivela difficilissima: produzione al minimo, manutenzione carente, ricapitalizzazione bloccata e debiti crescenti. Nel febbraio 2024 Invitalia chiede l’amministrazione straordinaria mentre i privati tentano un concordato, respinto dal tribunale.

Il punto di rottura arriva nel maggio 2025, quando un incendio all’Altoforno 1 – causato dalla mancata manutenzione – ferisce cinque lavoratori e provoca emissioni nocive. La Procura dispone il sequestro dell’impianto e il blocco delle attività, facendo esplodere il ricorso alla cassa integrazione. Da qui nasce un durissimo scontro istituzionale: il governo accusa la magistratura tarantina di frenare la ripartenza, mentre i magistrati rivendicano il dovere di intervenire per tutelare salute e sicurezza, in un clima sempre più preoccupante.

Genova e Taranto in protesta

A Cornigliano la protesta imperversa da inizio settimana. Come sottolinea Armando Palombo della Fiom Cgil, il presidio davanti alla stazione resta attivo, così come i blocchi stradali. Per giovedì è già in cantiere uno sciopero generale dei metalmeccanici, con una marcia prevista verso la Prefettura. Intanto la città vive ore difficili: il corteo degli operai, aperto da una benna che ha spostato i coil di acciaio e dal grande striscione “Genova in lotta per l’industria”, ha attraversato l’aeroporto Cristoforo Colombo, poi l’A10, causando lunghe code, per dirigersi infine verso Genova Ovest e rientrare al presidio.

Situazione ancora più tesa allo stabilimento di Taranto, dove operai e sindacati hanno trascorso la notte ai presidi lungo la statale 100 e in prossimità dell’ingresso dell’Area Imprese. La statale 106 è stata invasa a sua volta, mentre il traffico lungo l’asse Taranto-Bari è stato deviato. Tir bloccati, falò improvvisati contro il freddo, fuochi d’artificio per richiamare l’attenzione: la mobilitazione è totale. Sul posto anche il sindaco Piero Bitetti e il vicesindaco Mattia Giorno, a testimonianza di una tensione che cresce di ora in ora.

Una situazione incandescente

Fiom, Fim, Uilm e Usb confermano la volontà di non lasciare i presidi finché non arriveranno risposte concrete dal governo. Contestano il piano della gestione commissariale, giudicato corto, inefficace e potenzialmente letale per un sito considerato di interesse strategico nazionale. Il Consiglio di fabbrica chiede la convocazione urgente di un tavolo unico a Palazzo Chigi e il ritiro del piano attuale, considerato un preludio alla chiusura.

ArcelorMittal se n’è andata, lasciando un impianto con manutenzione carente, debiti enormi, altoforno sequestrato. Invitalia (Stato) ha il 38%, ma non ha le competenze per gestire un’acciaieria. La magistratura ha sequestrato l’altoforno per motivi di sicurezza e l’Unione Europea vieta aiuti di Stato. In questo contesto, cosa può fare il governo? Trovare un acquirente privato disposto a investire miliardi in un impianto problematico? Facile a dirsi, difficile a farsi.

Un “tutti contro tutti” che non risolve nulla

I sindacati bloccano strade e fabbriche, ma non propongono soluzioni concrete. Chiedono «garanzie sul futuro industriale», ma il futuro industriale di un’acciaieria con altoforni sequestrati, debiti crescenti e vincoli europei è un’incognita per chiunque. Bloccare l’A10 non risolve il problema. Anzi lo aggrava, perché blocca semplicemente il traffico e crea disagi agli altri lavoratori e alla regione Liguria in generale .

Il governo accusa la magistratura tarantina di «frenare la ripartenza». I magistrati rispondono di dover «tutelare salute e sicurezza». Chi ha ragione? Entrambi, da un certo punto di vista. La magistratura ha il dovere di intervenire quando ci sono rischi per i lavoratori (e l’incendio di maggio ha dimostrato che i rischi sono reali). Ma è anche vero che sequestrare un altoforno significa bloccare la produzione, rischiare di mandare migliaia di persone in cassa integrazione, rendere l’impianto ancora meno appetibile per investitori.

È il classico dilemma italiano: sicurezza vs produzione. In teoria dovrebbero coesistere. Nella pratica, si scontrano. E pagano sempre gli stessi: i lavoratori. Perché mentre magistrati e governo litigano su chi ha ragione, migliaia di dipendenti dell’ex Ilva rischiano di perdere il lavoro.

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