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L’antimafia è un business da un miliardo

L’antimafia è un business da un miliardo

Tra fondi statali ed europei, immobili da riqualificare, musei, campi da calcio, migliaia di associazioni, altro, la «diffusione della legalità» al Sud ha un costo altissimo. E spesso quelli che se ne proclamano paladini ne approfittano.


È il 31 agosto 2022. Daniela Lo Verde, la preside simbolo dell’antimafia, dirigente della scuola Giovanni Falcone del quartiere Zen di Palermo, è nel suo ufficio perché bisogna organizzare un evento per il giorno dopo cui parteciperanno tantissimi bambini del quartiere. «Vuoi vedere se questo burro è scaduto?» chiede nell’intercettazione Lo Verde. E quando la docente risponde: «Sì, 20 agosto… è perfetto», la preside conferma: «Si può usare». È, questo, uno degli episodi che abbiamo letto nelle ultime settimane riguardante l’inchiesta che ha portato la donna ai domiciliari per peculato e corruzione: la dirigente, insignita nel 2020 del titolo di Cavaliere della Repubblica proprio per il suo impegno sul fronte della legalità (che, scrivono gli stessi investigatori, lei badava ad alimentare il più possibile), con la complicità di alcuni professori avrebbe sottratto denaro e prodotti tecnologici come pc, tablet e smartphone destinati agli alunni e acquistati con i finanziamenti europei. Non si salvava dalla puntuale razzia nemmeno il cibo: gli alimenti destinati alla mensa scolastica venivano, secondo gli inquirenti, prima controllati dalla preside, che decideva cosa servire agli alunni e cosa tenere per sé. Ovviamente saranno solo l’esito delle indagini prima, e il processo poi, a stabilire come stanno realmente i fatti. Una cosa, però, è certa sin da ora: quello della Lo Verde si configura come l’ultimo caso di paladini della legalità rivelatisi poi truffatori (o presunti tali, come in questa circostanza).

La cronaca degli ultimi anni è fitta di questi casi che – con una battuta – potremmo definire l’antimafia dei bluff. Restiamo in Sicilia e pensiamo a Silvana Saguto e Antonio Montante. La prima è stata un magistrato, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, in pratica la sezione che decide l’utilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Il secondo era vice-presidente di Confindustria, nominato dall’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano rappresentante dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati. Entrambi per anni hanno sfilato in convegni e dibattiti, partecipato a premiazioni insieme ad alti magistrati e personaggi politici di ogni partito, associazioni, vertici delle forze dell’ordine. Entrambi, però, sono finiti nella polvere, coinvolti in inchieste e sentenze. Saguto lo scorso gennaio è stata condannata a otto anni anche in Appello per l’«uso distorto» del suo potere, «spinta da uno spasmodico desiderio di assicurare un tenore di vita elevato a lei e alla sua famiglia», come si legge nelle 1.214 pagine delle motivazioni della sentenza di secondo grado. Secondo l’accusa, l’ex magistrato avrebbe gestito in modo clientelare e illegale i beni sequestrati e confiscati alla mafia sovrintendendo illecitamente alle nomine degli amministratori giudiziari, scegliendo solo professionisti a lei fedelissimi. In cambio avrebbe ricevuto da loro favori e regali.

Non è andata meglio a Montante, anche lui paladino dell’antimafia, per anni imprenditore-bandiera della legalità. Fino perlomeno al 2015, quando comincia a circolare la notizia di un’inchiesta dell’antimafia che lo vede protagonista. Un’inchiesta che si concluderà con una condanna in primo grado (a 14 anni) e, pochi mesi fa, anche in secondo (con una riduzione a 8 anni): per l’accusa Montante avrebbe creato un vero e proprio «sistema» fatto di connivenze dentro e fuori le istituzioni, dossieraggi contro gli avversari, lettere anonime, incursioni dentro la banca dati del Viminale, esposti all’autorità giudiziaria come vendette trasversali. Per intimidire, e infine piegare ai voleri della consorteria. C’è da stupirsi? Probabilmente no. Al di là delle inchieste, non sono pochi i casi in cui ammantarsi della battaglia in difesa della legalità può diventare anche un business. Secondo i dati più aggiornati, sono oltre duemila le associazioni antimafia presenti sul territorio italiano. A cui, poi, si aggiungono fondazioni, comitati, piccole realtà che magari organizzano una fiaccolata una tantum. E questo vuol dire drenare fondi pubblici. Tanti fondi pubblici.

Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla «diffusione della legalità», cui sono seguiti nel settennio successivo (2014-2020) altri 692 milioni. Oltre un miliardo di euro. Finiti, tra le altre cose, per la riqualificazione di immobili, poli di «trasformazione del pomodoro», musei, centri polivalenti e campi da calcio. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Secondo l’ultima relazione, siglata nel 2022, sono stati erogati oltre 41,8 milioni rispetto agli 8,8 del 2021. Un boom singolare, cui fanno da contraltare le tante domande respinte e i ricorsi (28 rispetto ai 17 del 2021) contro le delibere di diniego del ministero.Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti in gioco. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutt’Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo «Mafia Capitale» di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte (sappiamo bene come poi la componente mafiosa di fatto non sia stata riconosciuta).

Tutto legittimo e sacrosanto, ci mancherebbe. A patto che poi quei soldi vengano utilizzati per fini nobili. Cosa che parrebbe non essere avvenuta (o non in pieno) con l’associazione «Museo della ’ndrangheta»: una presunta truffa sui finanziamenti che la Regione Calabria e la Provincia di Reggio Calabria avevano elargito all’ente, costata una condanna (pena sospesa) per il presidente Roberto La Camera a nove mesi in primo grado. Restando sempre in Calabria, ha fatto ampiamente discutere un’altra inchiesta che ha visto coinvolta Adriana Musella che con la sua associazione «Riferimenti», dopo essere stata insignita anche lei di diversi riconoscimenti (premio Caponnetto e premio Ambrosoli per l’impegno civile), ed essere stata nominata Grande ufficiale al merito della Repubblica, risulta oggi ancora sotto processo – che, causa Covid, pare proceda molto a rilento – per appropriazione indebita: in pratica avrebbe impiegato parte dei fondi pubblici che le erano stati erogati per viaggi, pranzi, soggiorni in hotel e acquisti di beni di consumo.

A finire nelle maglie della giustizia è stata anche Rosy Canale, storica paladina contro la ’ndrangheta in Calabria e nella zona di San Luca dove, manco a dirlo, aveva fondato un’associazione antimafia. A settembre pare si sia pure candidata alle politiche, così perlomeno recita un santino che circola in rete. Il suo slogan? «Una Calabria libera dai procuri-attori», a mo’ di sfottò – sembra – contro i pm. Oggi vive negli Usa, dove ha aperto un blog: adessoparlarosy.

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