Le case famiglia restano mondi chiusi, con controlli scarsi, dove poco si sa sui metodi adottati, sui soldi pubblici che arrivano, su educatori e volontari. Restano le testimonianze drammatiche di chi vi è cresciuto.
Non passa settimana che una casa per anziani non finisca al centro di uno scandalo, tra maltrattamenti, abusi, ruberie e violazioni di norme igieniche. In quelle per minori, invece, va tutto bene. Bibbiano a parte. Il fatto che le denunce e le inchieste della magistratura si contino sulla punta delle dita non è del tutto rassicurante. Basta parlare con chi è cresciuto in una casa famiglia per sentirsi descrivere un mondo pericolosamente chiuso in se stesso e pieno di conflitti d’interesse tra sistema della giustizia minorile e gestione delle strutture di assistenza.
Un mondo a parte, dove Stato, Regioni, Comuni, Ministeri, Parlamento, garanti e sindacati faticano a fornire cifre attendibili e aggiornate sui soldi che girano e sul numero dei minori realmente presi in carico. Una mancanza di trasparenza che ovviamente non aiuta a capire se nelle case famiglie vada davvero tutto bene, oppure perché bambini e ragazzi non sanno con chi parlare dei loro problemi.
Un dolore che non si cancella. «Dove sono cresciuto, in una struttura protetta della Sicilia, ho visto bambini africani continuare a mangiare per terra fino all’età di otto anni, con la scusa che a casa loro erano abituati così» racconta S.R., oggi venticinquenne. Si ritiene un ragazzo tutto sommato fortunato, «ma solo perché avevo un piccolo patrimonio lasciato dai miei genitori e il mio amministratore è stato straordinariamente presente e mi hanno fatto studiare».
R.T. invece è di origini brasiliane e oggi ha 32 anni. Fu tolta alla madre perché incapace di provvedere a lei e, anche se oggi lavora e ha un compagno, ha ancora tante ferite aperte: «Sono finita dalle suore, che naturalmente mi hanno imposto la loro religione ed erano severissime».
Privazioni e nessuna attività all’esterno, pur essendo a pochi chilometri da una città come Roma, erano la regola. «Molte di noi avrebbero avuto bisogno quantomeno di uno psicologo» ricorda. «Per anni ho dormito con due bambine che urlavano e stavano male, ma l’unica risposta erano le punizioni». C’erano anche maltrattamenti? R.T. fa un sorriso amaro e spiega: «Avevamo solo insegnanti interni e quindi nessuna possibilità di sfogarci con qualcuno che fosse libero rispetto alla direttrice».
Senza bisogno di andare sulla cronaca nera, basta parlare con chi è passato dalle case famiglia per raccogliere sempre lo stesso rosario di lamentele. E quando si diventa maggiorenni, lo Stato quasi sempre li abbandona. In che condizione? S.R. offre una sua personale statistica, da brava laureata in sociologia: «Nella mia esperienza, il 10% circa trova un lavoro e ha affetti autonomi; il 20% può considerarsi fortunato ma resta succube della famiglia di adozione; il 70% finisce in galera, disoccupato o addirittura tossicodipendente».
C’è una legge sul «dopo di noi», pensata per i figli malati che restano orfani anche in tarda età, ma paradossalmente dopo lo Stato-genitore, a 18 anni e un giorno, c’è il nulla o quasi. I dati, che fatica… Per anni, avere numeri precisi è stato impossibile. Poi, forse per via dello scandalo di Bibbiano, qualcosa si è mosso. Ai primi di agosto, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha portato alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle case per minori qualche numero su cui poter ragionare, anticipando i dati del rapporto dell’Istituto degli Innocenti al 31 dicembre 2019. In Italia, due anni fa c’erano 27.608 minori collocati fuori dalla famiglia di appartenenza (al netto dei minori stranieri non accompagnati, che sono soli non perché allontanati dai genitori), dei quali 13.555 sono in affidamento a famiglie e 14.053 sono ospitati in appositi istituti, mediamente da 10-12 posti letto.
Tra il 2016 e il 2019 è aumentato del 12% il numero dei minori collocati in comunità, ma secondo l’ex ministro delle Politiche giovanili ed ex Garante dell’Infanzia, Vincenzo Spadafora (M5s), «a fine 2014 nelle case famiglie c’erano 19.000 minori», ovvero un terzo in più di oggi. Mentre ogni anno, secondo l’organizzazione Sos Villaggi dei bambini (500 assistiti e 230 dipendenti), escono ben 3.000 neomaggiorenni, il che farebbe supporre che le cifre ufficiali siano inferiori alla realtà.
Il fascio di luce. Prima degli orrori di Bibbiano, raccontati da Panorama e da La Verità quando parlarne sembrava ancora lesa maestà degli amministratori del Pd o degli educatori «progressisti», erano pochissimi gli squarci di luce. Emblematica è la storia di Giovanni Piovan, un «educatore» che dirigeva due case famiglia nel padovano, condannato in Cassazione nel 2014 a 17 anni di reclusione per violenze e abusi sessuali in serie a danno di alcuni ragazzini tra i 12 e i 16 anni di età. Le sue vittime hanno trovato il coraggio di denunciarlo solo da maggiorenni e dalla sentenza definitiva emerge che Piovan li ricattava con i permessi di uscire e la paghetta, e sua moglie, che si occupava delle ragazze, veniva regolarmente picchiata.
I carabinieri hanno impiegato oltre due anni a ottenere l’arresto di Piovan e lui, quando ha sentito la pressione su di sé, si è allontanato da Padova e ha aperto impunemente una terza struttura in Trentino. Il che la dice lunga sui controlli. Nel 2017, invece, tre suore sono state condannate in primo grado dal Tribunale di Velletri per abusi su tre fratellini, su denuncia della madre che ne aveva subìto l’allontanamento. Castighi crudeli, botte, cibi avariati, violenze psicologiche, con un bambino costretto a scrivere centinaia di volte «io sono cattivo». Un dettaglio illuminante, per il sistema, è che le tre religiose sudamericane erano dislocate alla guida di tre diverse case famiglia, nell’esecuzione di quello che evidentemente era un medesimo disegno imprenditoriale.
Tanti soldi, pochi controlli. Le case famiglia saranno tutte onlus, ma i soldi girano comunque. I rimborsi possono andare da un minimo di 80 euro a un massimo di 400 euro al giorno, quando sono in ballo patologie complesse. A pagare sono in gran parte Comuni e Regioni, a volte con ritardi di mesi, e con pochissimi controlli sulle prestazioni effettive. Secondo il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), una retta corretta dovrebbe essere intorno ai 100-120 euro al giorno, ma in grandi città come Napoli o Palermo si oscilla tra gli 80 e i 90 euro.
Con rette medie da 100 euro, la spesa annua dovrebbe insomma aggirarsi sui 510 milioni di euro per 14.000 minori; mentre alle famiglie affidatarie vanno mediamente 350 euro al mese. Nel Lazio, dopo scandali e proteste degli operatori, il presidente Nicola Zingaretti ha deciso tre anni fa un rimborso da 100 euro al giorno, con una spesa che nel 2019 è stata pari a 6,5 milioni. Nella sola provincia di Napoli, secondo le associazioni delle case famiglia locali, ci sarebbero un migliaio di minori, seguiti da 700 operatori.
Ma è dal 2015 che un circuito ramificato come la Comunità Papa Giovanni XXIII (201 case famiglia in Italia), fondata da don Oreste Benzi e diretta da Giovanni Ramonda, sottolinea che «molte strutture si fregiano del nome di casa famiglia, mentre invece non hanno un papà e una mamma, come avviene nelle nostre case famiglia, ma operatori a turno, che oltre a costare molto di più non rispondono al bisogno primario del minore di avere una famiglia».
Giudici che si fanno aiutare. Già, ma se è vero che non basta il volontariato, bisogna guardarsi anche da chi indossa troppi cappelli. Tra l’11 ottobre e l’11 novembre scorso sono state raccolte dal Consiglio superiore della magistratura le domande per le nomine e le conferme dei magistrati minorili onorari per il triennio 2023-2025. Il Csm, a luglio, dopo gli scandali ha stretto le maglie. In particolare, esaminando i criteri di selezioni dei vari «esperti», psicologi, antropologi e psicoterapeuti per primi, l’organo di autogoverno ha toccato con mano quanto le associazioni di famiglie e genitori denunciavano da anni, ovvero che spesso i magistrati onorari avevano interessi nelle case famiglie, di cui erano o proprietari, o direttori, o consulenti.
Cinque anni fa, un dossier presentato al Csm da Finalmente Liberi onlus indicava 211 casi di incompatibilità su un migliaio di toghe onorarie. Con la circolare di luglio e i nuovi bandi, viene finalmente responsabilizzato il presidente del Tribunale minorile competente nella scrupolosa verifica dei doppi incarichi con l’unica «minaccia» che può funzionare: ovvero gli errori faranno punteggio (negativo) per la carriera.
Ma la tenaglia sui magistrati onorari si sta stringendo anche con la riforma voluta dal ministro Marta Cartabia, in discussione alla commissione Giustizia della Camera, che prevede un loro ridimensionamento e un aumento dei casi in cui, sui minori, può decidere da solo il giudice togato. L’associazione dei giudici minorili (Aimmf) è contraria e in un’audizione del 27 ottobre la sua presidente, Cristina Maggia, ha tentato di difendere la situazione esistente sottolineando quanto siano importanti le esperienze e le competenze di professionisti diversi dal magistrato ordinario.
Verissimo, ma quello che non emerge quasi mai, nelle doglianze di un mondo corporativo e che cerca di resistere alle riforme, è un banale principio di responsabilità e di rendicontazione dell’uso di denaro pubblico. Se è vero che quando si è orfani, di fatto, «si appartiene allo Stato», sarebbe il caso che almeno con i bambini lo Stato facesse lo Stato e desse il meglio di sé. Senza confondere riserbo con opacità.
