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Niger, se la speranza viene dal carcere. Le foto

Niger, se la speranza viene dal carcere. Le foto

Secondo reportage sulla missione africana del Partito radicale e di Nessuno tocchi Caino, per la moratoria della pena di morte

Dall’11 al 22 novembre l’organizzazion Nessuno tocchi Caino e il Partito Radicale hanno lanciato una missione in Africa con l’obiettivo di ottenere voti a favore della Risoluzione Onu per la moratoria universale delle esecuzioni capitali in discussione al Palazzo di vetro. La delegazione radicale, composta da Sergio D’Elia, Marco Perduca e Marco Maria Freddi, si è recata prima in Zimbabwe e nelle Isole Comore ed è stata raggiunta nel Niger, terza tappa della missione, anche da Marco Pannella, Matteo Angioli e Stefano Marrella.

Nel corso della missione si sono svolti incontri coi massimi rappresentati istituzionali dei tre Paesi africani e sono state effettuate visite nelle prigioni di Niamey e Kollo in Niger e in quella di Moroni nelle Comore, sulla quale Marco Perduca ha scritto per Panorama.it il reportage che segue.


Il carcere di Kollo

La visita al carcere di Kollo ci ha invece presentato una situazione radicalmente diversa rispetto a quella del penitenziario della capitale. Il complesso, costruito col tipico fango di terra rossa africana, è organizzato in quattro parti: una femminile dove erano presenti 24 donne in una struttura piuttosto angusta ma comunque discretamente tenuta, e una parte maschile divisa tra detenuti definitivi, in attesa di giudizio e “funzionari” statali. Costruito nel 1987 per ospitare circa 1.500 detenuti, al momento della nostra visita il carcere conteneva 283 persone: 161 condannati, di cui quattro donne e due minorenni; 124 in attesa di sentenza definitiva, di cui 20 donne e 1 minorenne.

I settori detentivi maschili ruotano attorno a una zona di preghiera centrale, di solito gestita da un detenuto che funge da imam. A differenza del carcere di Niamey, qui le “moschee” sono molto ben tenute.

Le celle ospitano da un minimo di quattro a un massimo di otto posti letto e sono aperte dalle 6.30 del mattino fino alle 19 della sera. Anche qui le finestre sono fessure. Buona parte della giornata viene passata all’aperto in totale indolenza dove viene anche servito un misero pasto unico al giorno – il resto dell’alimentazione viene garantito da cibo fornito dai famigliari.

I “funzionari”, una trentina di persone incolpate o condannate per reati contro la pubblica amministrazione, sono organizzati come una piccola comunità, separata dagli altri detenuti.

In Niger non esiste la polizia penitenziaria e le carceri sono guardate da militari; il personale medico a Niamey era civile, a Kollo tutto in divisa. Poco fuori le mura dell’istituto, qualche mese fa è stato ampliato un orto dove sei detenuti coltivano verdure che in un futuro potranno venir utilizzate per il rancio.

Per oltre due ore abbiamo potuto interagire liberamente con gli ospiti di tutte le sezioni di entrambi gli istituti, almeno con quelli che capivano il francese. Ma nella sezione dei condannati, oltre ai tête-à-tête coi ristretti, è successo qualcosa di diverso, si potrebbe dire di “magico”. Su invito del direttore del protocollo del Ministero della Giustizia, Marco Pannella si è rivolto ai condannati per spiegare chi fossimo e il perché della nostra visita.

È raro che Pannella prenda la parola esclusivamente per espletare le formalità di rito, e infatti, schiarita la voce, s’è subito lanciato in un sermone. Sermone nel senso più nobile, più classico, del termine. Premettendo la gioia che gli riempiva il cuore di poter esser lì con quel centinaio di persone a cui era privata la libertà, Pannella ha approfondito il motto “spes contra spem” che recentemente, e con crescente insistenza, ripete dove gli è possibile: essere speranza contro la banalizzazione dell’avere speranze che non si realizzano perché vuoti proclami che non riescono a dar corpo alle alterità necessarie a prefigurare scenari alternativi all’esistente. L’uditorio ha ascoltato in un silenzio ipnotizzato.

Il “vecchio” è speciale

In Africa il “vecchio” è una persona speciale. Là dove l’aspettativa di vita massima è intorno ai 50 anni, trovarsi davanti un ultra-ottantenne (Pannella è del 1930) che in jeans e sciarpa rosa, un regalo delle detenute del carcere di Niamey, vuol coinvolgere un uditorio nel rovente meriggio nigerino, di per sé suscita deferente attenzione. Quando poi il saggio, venuto da chissà dove e chissà perché, vuole infondere speranza col suo esempio di durata, col suo “esserci”, dimostrando un sincero e informato interesse alle vicende degli ultimi, e spesso anche dimenticati, allora scatta una chimica che può trasformare pochi minuti di parole in un avvenimento memorabile. La riprova dell’efficacia espressiva di Pannella è stata il vigore con cui la Direttrice dell’Amministrazione Penitenziaria del Niger ha tradotto le sue parole in una delle lingue locali. Una traduzione che ha suscitato applausi sinceri.

La citazione paolina fatta propria da tempo da Pannella non implica un atto di fede. Pannella, che è credente nell’esser umano e nelle sue capacità di assumersi la responsabilità di esser lui per primo il cambiamento che vuol vedere accadere nel mondo, la intende come “formula magica” evocativa e non come una “mera” citazione biblica: esser soggetto di speranza contro la speranza come oggetto.

Due giorni dopo quella visita alle carceri di Niamey e Kollo, il Niger, per la prima volta da quando è possibile farlo, ha votato a favore della risoluzione ONU che proclama una Moratoria Universale delle esecuzioni capitali. In un incontro ufficiale nel suo ufficio, il Ministro Amadou Marou ce lo aveva preannunciato. “Vous avez ma parole d’honneur” – avete la mia parola d’onore. Spes contra spem.

 

*Rappresentante all’Onu del Partito radicale

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