Home » Se il politically correct si accorge dei film italiani

Se il politically correct si accorge dei film italiani

Se il politically correct 
si accorge dei film italiani

Da Alberto Sordi a Massimo Troisi, da Lina Wertmüller a Totò, fino ai capitoli della saga di Amici miei: se l’orientamento ideologico che ormai detta legge nel mondo anglosassone dovesse applicarsi a molte pellicole tricolori che hanno fatto la storia del costume, calerebbe la mannaia della censura. Speriamo che non accada…


L’allarme più autorevole è venuto poche settimane fa da Quentin Tarantino: la cancel culture, ha avvertito, «rischia di colpire anche il cinema, trasformandosi in una pericolosa censura preventiva». Era quasi scontato, del resto, che l’anticonformistissimo regista di Pulp fiction fosse tra i primi a ribellarsi agli strabordanti eccessi del politically correct applicati alla cinematografia. Non per nulla, Variety aveva stroncato il suo ultimo film, C’era una volta a Hollywood, sostenendo che «avrebbe bisogno di un’etichetta preventiva, con l’avvertenza che non ha incluso abbastanza personaggi neri e messicani, e ha ignorato completamente la tendenza alla supremazia bianca nel cinema».

Non è uno scherzo, né una boutade. Negli Stati Uniti un’infamante etichetta esplicativa è già stata appesa a una lunga serie di capolavori del cinema: un po’ come le scritte di pubblica riprovazione che in Cina gli studenti maoisti appendevano al collo dei presunti controrivoluzionari durante la Rivoluzione culturale. Nel caso della nuova gogna cinematografica, è evidente, lo scopo resta sì «educare il popolo», ma quello degli spettatori.

Dal 2019, per esempio, in tutto il mondo i titoli di testa di Via col vento sono preceduti da una lunga didascalia che critica alcuni dei personaggi e delle caratteristiche per cui quel film monumentale è passato alla storia. È una scritta che schiaffeggia letteralmente l’America del 1939, il cui cinema «razzista» permetteva che le colf fossero rappresentate come ciccione nere incapaci di esprimersi in inglese, mentre i padroni bianchi erano sgarbati e autoritari, poco meno che squallidi schiavisti.

Negli Stati Uniti, le tossine della «cancel culture» si diffondono ovunque da quasi dieci anni, inevitabile che prima o poi si applicasse anche al cinema. L’ondata del revisionismo moralistico in Europa, finora, è più moderata, tanto che da noi ha provocato sconcerto l’antistorica censura invocata in America contro alcune pietre miliari dell’animazione Disney: dal Biancaneve (1937), bandito per il bacio che il principe avrebbe «imposto» alla principessa addormentata, e quindi «non consenziente» secondo i canoni contemporanei, e pertanto atto di esecrabile prevaricazione sessuale, a Dumbo (1941), crocifisso perché i corvi che insegnano a volare all’elefantino parlano un antico slang nero giudicato «razzista»; da Peter Pan (1953) che meriterebbe il rogo solo perché i nativi dell’Isola-che-non-c’è vengono descritti con il denigratorio appellativo di «redskin», «pellirosse», agli Aristogatti (1970), censurato perché un siamese viene raffigurato con stereotipi asiatici ritenuti offensivi.

Ma la «cancel censorship» globale, per fortuna, non s’è ancora accorta di quel che alligna in alcune immortali pellicole italiane. Eppure Cinecittà, come è accaduto a tutta la cinematografia mondiale, nell’ultimo secolo ha sfornato pellicole (inevitabilmente) adeguate ai loro tempi, e quindi (inevitabilmente) a volte maschiliste, a volte razziste, a volte omofobe. I film italiani che potrebbero cadere sotto la mannaia del neopuritanesimo sono centinaia. Una prima rassegna, doverosamente ironica, l’ha tentata Alessandro Chetta, videomaker e giornalista, nel saggio Cancel Cinema (Aras Edizioni, pp. 201, 18 euro), dove un intero capitolo viene dedicato ad Alberto Sordi che sevizia Monica Vitti. Il film «incriminato» è Amore mio aiutami! del 1969, uno dei capolavori della cinematografia sordiana, rimasto celebre anche per una sequenza girata sulla spiaggia di Sabaudia, dove per 2 minuti e 43 secondi Giovanni Machiavelli (Alberto Sordi) picchia selvaggiamente la moglie traditrice Raffaella (Monica Vitti, anche se in realtà la scena vede come controfigura Fiorella Mannoia, allora adolescente e all’inizio della sua carriera artistica). Per usare terminologie coerenti con il faticoso politically correct dei giorni nostri, si tratta di un mezzo «femminicidio», tant’è che la Vitti ne esce col volto trasformato in una maschera di sangue. Nel 1969, però, la critica non se ne scandalizzò affatto: Giovanni Grazzini scrisse, anzi, che il film era «un tragicomico minuetto sul tema attualissimo della coppia che dietro una facciata di disinvolto modernissimo s’aggroviglia nell’antico gioco delle parti…».

Se una pizza del film cadesse nelle mani dei cancelculturisti americani, il tragicomico minuetto verrebbe bruciato in piazza. Esemplarmente. E folle inferocite correrebbero alla ricerca di una statua di Sordi per abbatterla. Il cinema italiano, insomma, è a rischio per il suo frequente antifemminismo.

Non ne sono immuni molte pellicole firmate da importanti registi di sinistra, come l’appena defunta Lina Wertmüller. Basta pensare al suo Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, del 1974, dove un naufragio trasforma la «bottana capitalista» Mariangela Melato nella schiava – anche sessuale – di Giancarlo Giannini, un marinaio del suo yacht. Perfino una delle icone più elevate della sinistra buonista è a rischio: Massimo Troisi è morto nel 1999, ma oggi anche lui dovrebbe vedersela con stuoli di rabbiosi cancelculturisti. Nel 1981, in una scena di Ricomincio da tre, il suo primo film da regista, Troisi discute con l’amico Robertino (interpretato da Renato Scarpa), un giovane complessato e recluso in casa da una madre oppressiva. Per sottrarsi alla tirannia psicologica della genitrice, Troisi gli suggerisce una terapia decisamente politically incorrect: «Tu devi uscire, Roberti’: ti devi salvare, sient’ammé. Vai in miezzo alla strada, tuocc’effemene, va’ arubba’…». Come se toccare le donne (presumibilmente non consenzienti) fosse una pratica da training autogeno.

Per non parlare della scena della brutale violenza anale imposta da Marlon Brando all’inconsapevole Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi, del 1972: trent’anni dopo il regista Bernardo Bertolucci, uno dei campioni del sinistrismo globale, venne accusato dall’attrice di averla ingannata. La Schneider dichiarò che si era sentita abusata e umiliata da quella scena, e in particolare dal dettaglio del burro non previsto dal copione.

Nel 2007 Bertolucci fu costretto a scusarsi, ma oggi, 15 anni dopo, né le scuse né la patente di antico comunista basterebbero a placare l’indignazione dei cancelculturisti. Che scoprirebbero forse con ancor maggiore scandalo la profonda vena razzista della cinematografia italiana.

Se mai in un qualsiasi cinema d’essai statunitense dovesse passare una pellicola di Totò Truffa ’62, uno dei capolavori di Camillo Mastrocinque (del 1961), la sala verrebbe bruciata e sale a manciate verrebbe gettato sulle rovine fumanti. La scena in cui Nino Taranto e Totò, entrambi con la faccia dipinta di nero e l’anello al naso (!), si fingono diplomatici del falso Stato africano del Catonga per imbrogliare una loro vittima, è esilarante: ma sarebbe certo imperdonabile per i cupi fedeli della cancel culture.

Al grido «Black lives matter», la stessa fine farebbe forse ogni copia esistente del Sorpasso di Dino Risi, del 1962, e questo soltanto perché Vittorio Gassman in una scena respinge un’autostoppista nera gridandole: «Vattene via, pallidona!».

In quello stesso grande film, peraltro, emerge un’omofobia di cui non dev’essersi accorto finora nemmeno Alessandro Zan, il deputato Pd celebrato dal mondo politically correct per il controverso progetto di legge che vorrebbe inasprire la punizione di ogni pensiero non allineato alla celebrazione dell’orgoglio omosessuale. Sempre Gassman, in un’altra scena, definisce infatti «checca di campagna» un vecchio zio, che chiama «Occhiofino», e poi spiega che quel nomignolo è «l’anagramma di finocchio».

Ma a prendere delicatamente in giro i «finocchi» è anche Gastone Moschin, nei panni di un mitico architetto Melandri nel primo Amici miei del 1975. I cancelculturisti metterebbero tutto questo al rogo.

E forse è il caso di cominciare a prendere in considerazione la minaccia. «Per ora da noi è difficile accorgersi della cancel culture» avverte lo scrittore Giulio Meotti, da cinefilo «ma quando sarà diventato praticamente impossibile ridere, che è il passatempo preferito degli occidentali, mi auguro verrà presa più sul serio». n

© riproduzione riservata

© Riproduzione Riservata