È stata una frase fuori luogo quella del ministro israeliano del patrimonio culturale Amichai Eliyahu, ora sospeso a tempo indeterminato dopo aver affermato in un’intervista che sganciare una bomba nucleare sulla Striscia di Gaza sarebbe stato possibile. Un’uscita infelice e certo poco consona a una persona con le responsabilità da componente del governo, fatta senza pensare che nessuno farebbe esplodere una bomba radioattiva nel cortile di casa propria. Tanto che il primo ministro Benjamin Netanyahu, in una dichiarazione su X, si è affrettato a specificare che “Le dichiarazioni di Eliyahu non sono basate sulla realtà”.
Che Israele possieda capacità di difesa nucleari è noto, si stima infatti che conservi in stato di prontezza 90 testate nucleari e possieda scorte di materiale fissile per circa 200 ordigni; tuttavia, Gerusalemme non ha mai ammesso né negato di possederle, ma è un fatto che nella flotta aerea della Difesa siano presenti velivoli come lo F-35, con capacità di trasporto nucleare. Membro del partito ultranazionalista Potere Ebraico, Eliyahu ha affermato domenica scorsa in un’intervista radiofonica che “poiché a Gaza non ci sono non combattenti”, l’uso di un’arma atomica sull’enclave palestinese sarebbe stata “una possibilità.” Seppure il ministro abbia poi cercato di rettificare la sua affermazione dicendo “E’ chiaro a tutte le persone sensate che il riferimento alle armi nucleari era metaforico”. Il leader dell’opposizione Yair Lipid ha chiesto la sua immediata rimozione denunciando la “dichiarazione scioccante e folle di un ministro irresponsabile”. La posizione del governo di Nethanyahu è quindi sempre più delicata, dopo che l’esecutivo è stato investito sia dalle accuse per il fallimento dell’intelligence nel prevenire gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, sia essere stato in seguito criticato per la mancanza di sostegno fornito ai sopravvissuti degli attacchi e alle loro famiglie.
Ma se l’atteggiamento israeliano è parso folle alle orecchie di chi ha ascoltato quell’intervista, altrettante preoccupazioni sorgono riguardo la presunta capacità di offensiva nucleare di Teheran. Il 24 ottobre scorso il Consiglio dell’Unione Europea aveva deciso di adottare i provvedimenti necessari per mantenere le misure restrittive per la non proliferazione di bombe nucleari in Iran, la cui scadenza era prevista per il 18 ottobre. Il Consiglio ha infatti ritenuto che vi siano validi motivi per mantenere tali restrizioni alla data di transizione (18 ottobre 2023), come inizialmente previsto dall’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa, da Joint Comprehensive Plan of Action). Di fatto la decisione del Consiglio è in linea con quanto previsto dalla risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e del trattato stesso, in considerazione del mancato rispetto, da parte dell’Iran, degli impegni assunti come riferito dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica dal 2019. Il JCPOA, o accordo sul nucleare iraniano, è un accordo raggiunto nel 2015 tra Iran, Regno Unito, Cina, Francia, Germania, Russia e Stati Uniti per limitare il programma nucleare iraniano in cambio di un alleggerimento delle sanzioni. L’Iran sostiene che il suo programma nucleare è pacifico e che non ha intenzione di sviluppare armi nucleari, ma dal maggio 2019 la repubblica islamica continua a violare i termini dell’accordo Jcpoa: avrebbe alzato il limite alle sue scorte di uranio, che ora sono 18 volte il livello consentito, aumentato le proprie attività di arricchimento al 60%, ben oltre il 3,67% consentito dal trattato e ha ripreso le attività negli impianti nucleari che in precedenza erano stati vietati e dichiarati chiusi. Dal febbraio 2021 all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) è stato impedito di controllare in modo soddisfacente le attività. All’inizio del 2023, l’Aiea aveva anche riferito della scoperta di elementi di uranio arricchito all’83,7% ma successivamente aveva accettato la spiegazione dell’Iran sul fatto che non sarebbe stato raggiunto il livello critico del 90% di arricchimento necessario per confezionare ordigni. Da parte iraniana l’accusa agli occidentali sarebbe quella di non aver affatto alleggerito le sanzioni, una tesi sostenuta da una seconda richiesta di eliminarle del tutto in cambio dell’ingresso dei tecnici presso gli impianti. All’interno del gruppo Jcpoa esiste un sottogruppo di nazioni denominato E3, formato da Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania, i quali dal 2021 sostengono sia che in Iran non esista una giustificazione credibile per quanto sta facendo Teheran sul programma nucleare civile, sia che il tempo necessario per produrre abbastanza materiale fissile per le armi nucleari sarebbe stato di un anno, al quale però se ne sarebbero dovuti aggiungere altri due per costruire una testata nucleare consegnabile alle forze armate. L’amministrazione americana guidata da Joe Biden aveva più volte cercato di riattivare l’accordo fino all’estate 2022, ma successivamente i colloqui si sarebbero interrotti seppure, grazie alla mediazione dell’Oman, si sarebbe giunti a un accordo sul rilascio di alcuni detenuti statunitensi imprigionati in Iran, e in cambio di un certo numero di iraniani detenuti negli Usa con anche lo sblocco di 6 miliardi di dollari in fondi iraniani congelati, con le parti che erano tornate a parlare del Jcpoa. Secondo i termini del trattato, che non scade definitivamente fino al 2025, tutte le precedenti sanzioni delle Nazioni Unite relative al programma nucleare iraniano possono essere reimposte in caso di “significativa inadempienza da parte dell’Iran”. E il gruppo E3 nel settembre scorso aveva confermato di essere “impegnato a impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari”.
