Dal Paese in mano ai talebani abbiamo evacuato 5 mila persone, che sarebbero state perseguitate e, in moltissimi casi, uccise. Ma là restano ancora nostri collaboratori che chiedono di essere salvati. E anche chi è arrivato qui è costretto a situazioni pesanti.
«Per i talebani è un privilegio ucciderci. Siamo in pericolo, obiettivi di eliminazioni mirate e sequestri» è la drammatica denuncia di Shakila, un’ufficiale del disciolto esercito afghano. In divisa, attorniata da altre donne soldato di Herat, lancia un disperato appello video al nostro Paese attraverso Panorama. «L’Italia è stata uno dei nostri più importanti sostenitori» dice in inglese. «Siamo un gruppo di 45 donne dell’esercito che hanno servito nella parte occidentale dell’Afghanistan».
Le altre, il volto coperto dalle mascherine anti-Covid, hanno portato le loro giovanissime figlie che mostrano cartelli con scritto «salvateci» e «non dimenticateci». Le donne soldato dichiarano di «non avere abbastanza cibo» per sopravvivere. «È calato il silenzio sul nostro destino» denunciano. «Chiediamo aiuto al governo e al popolo italiano. Vi preghiamo di salvare le nostre vite e quelle dei nostri figli». Il drammatico video appello è arrivato grazie a Zhara Gol Popal, responsabile di genere del 207° corpo d’armata di Herat. Dopo la presa del potere dei talebani il 15 agosto era ricercata in tutto il Paese. Grazie a una catena di solidarietà che ha coinvolto la Fondazione l’Ancora e il Comune di Verona, la soldatessa Jane afghana e i suoi familiari sono arrivati in Italia. «In Afghanistan sarei morta. Ci avete salvato» sottolinea Zhara nel mini appartamento veronese. «Ma vi prego di non dimenticare le donne afghane oppresse dai talebani».
L’ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ci conferma che «tanti nostri amici in Afghanistan sono rimasti indietro. Non solo gli interpreti, anche i militari che abbiamo formato, i giudici, le soldatesse che nessuno considera». Sui 5 mila afghani evacuati in emergenza dall’aeroporto di Kabul, l’ex grillina mette il dito nella piaga: «Ricevo segnalazioni di problemi da diverse parti d’Italia. Dovevano essere accolti in maniera diversa rispetto a tutti gli altri migranti entrati illegalmente. In molti casi non è stato così».
Abbiamo raccolto alcuni dei guai degli afghani d’Italia. «Non smetteremo mai di ringraziarvi per averci salvato, ma dove ci troviamo adesso, a Bergamo, credetemi, non si può vivere» racconta Arezoo Yahya Zadeh. Assieme alla sorella, la giornalista afghana di 27 anni era diventata famosa innalzando un pezzo di cartone con la parola «Tuscania» nella calca che cercava di entrare all’aeroporto di Kabul per l’evacuazione di agosto. I carabinieri paracadustisti del reggimento Tuscania le hanno viste e tratte in salvo. «Non abbiamo un punto di riferimento. L’appartamento è in pessime condizioni, il riscaldamento non funziona e ci sono spifferi dalle finestre. Ci siamo ammalate ed è difficile dormire per il freddo» racconta l’afghana.
Le ragazze di Herat hanno fotografato le confezioni di mandarini marci e stanno lottando per frequentare un corso di italiano. Purtroppo sono entrate nel girone dantesco dei Cas, i centri di accoglienza straordinaria, che dovevano essere una soluzione temporanea, per poi passare al programma di integrazione vero e proprio. L’appuntamento per la commissione che deciderà l’asilo in Italia, però, è fissato nel lontano 17 marzo 2022.
«Mi domando perché il governo non abbia dato agli Interni indicazioni per distinguere le procedure degli evacuati dall’Afghanistan da quelle normalmente utilizzate per gli sbarchi dei clandestini» dice Cinzia Bonfrisco, europarlamentare della Lega che ha preso a cuore la sorte degli afghani. «Trovo ingiusto averli inviati nei Cas senza considerare che si tratta quasi sempre di nuclei familiari con anziani o con bambini piccoli». Al momento sono 2.700 gli afghani ad avere ottenuto lo status di rifugiato, ma «sarebbe stato meglio un riconoscimento immediato» sottolinea Bonfrisco per entrare subito nel circuito di accoglienza e integrazione Sai.
Il capitano dei corpi speciali, Aijad Mohammadi, ha combattuto fino all’ultimo contro i talebani. Da settembre è in Liguria con i suoi familiari, compresa la vedova di un fratello decapitato dai nuovi padroni dell’Afghanistan. «I talebani utilizzano schede cellulari con prefissi internazionali, compreso il +39 italiano, per chiamare gli afghani che hanno collaborato con la Nato» ci rivela. «Se rispondono o si presentano nella speranza di venire evacuati vengono imprigionati o uccisi». Fino a metà dicembre il capitano, che si è formato all’Accademia militare di Modena, viveva con l’aiuto «dei commilitoni italiani del corso Coraggio e della signora Bonfrisco. Non avevo neanche i soldi per comprare le scarpe ai bambini. Il comune che ci ospita ci porta da mangiare, altrimenti morivamo di fame». Ora, dopo interventi e pressioni, riceverà «2,5 euro a persona al giorno o 225 euro al mese per famiglia con più di tre membri. Vorrei lavorare per non pesare su nessuno».
Da Sassari, dove sono state mandate otto famiglie afghane, arriva la denuncia di Yusuf Qaderi, ex contractor per il contingente italiano a Herat. «Viviamo in condizioni difficili. Il vostro governo ci ha dimenticati. Ho scritto a tutti, ma nessuno risponde. Ci avevano promesso un alloggio decente e un aiuto economico iniziale per rifarci una vita. Una famiglia è già andata via verso la Germania. E altri stanno addirittura pensando di tornare nel nostro Paese anche se è un grosso rischio».
Secondo uno degli ex interpreti «circa il 50 per cento degli afghani evacuati ha seri problemi di collocazione e di vita quotidiana». A Panorama è arrivata una lettera aperta di Hamidullah Ebrahimi, che ha lavorato per 11 anni al fianco dei nostri generali passati per l’Afghanistan. «Con mia moglie vivo vicino a Napoli» scrive «ma sfortunatamente madre e fratelli, ancora in Afghanistan, sono in pericolo». Ebrahimi era il traduttore di generali come «Ignazio Gamba, Luigi Chiapperini, Michele Pellegrino, Manlio Scopigno e agli incontri non avevo il volto coperto. I video e le foto sono negli archivi della tv afghana e sulle pagine Facebook dell’ex polizia ed esercito sotto il controllo dei talebani, quindi la vita della mia famiglia è in pericolo». Per questo rivolge un appello ai generali, che non hanno risposto a telefonate e messaggi: «Quando eravate in missione in Afghanistan ho sempre e in ogni situazione fatto il mio dovere, come dimostrato da attestati e medaglie. Aiutatemi a portare la famiglia in Italia in ogni modo possibile».
I corridoi umanitari concordati dal governo con le Ong prevedono i ricongiungimenti familiari e l’arrivo di 1.200 afghani, ma nel giro di due anni. Per i casi più a rischio potrebbe essere troppo tardi. Dal 9 dicembre è partita l’operazione Aquila Omnia bis per «il trasferimento in Italia di circa 500 persone, tra ex collaboratori della Difesa e i rispettivi nuclei familiari, che al momento si trovano negli Stati vicini all’Afghanistan» in pratica Iran e Pakistan. Anche per loro Bonfrisco invita a non dimenticare «il contributo futuro che potranno dare al nostro Paese e all’Europa quando dovremo tornare a occuparci di Afghanistan per evitare che diventi una bomba ad orologeria di immigrazione incontrollabile».
