Dopo che nei mesi passati il clima parlamentare si era surriscaldato sull’annosa questione legata al reato di abuso d’ufficio, previsto nel codice penale all’art. 323, ora la Commissione giustizia del Senato lo ha cancellato approvando, in pratica, l’articolo 1 del Ddl Nordio, storica “battaglia” del Ministro da sempre espressosi per l’abolizione di fatto della norma. Sulla sua strada, inizialmente, si erano posti di traverso la Lega di Giulia Bongiorno, più orientata per una revisione della norma, e Fratelli d’Italia, a sua volta spaccata tra una frangia progressista, favorevole all’abolizione, ed una conservatrice, cui la norma non dispiaceva. Lo scorso maggio Andrea Costa, responsabile Giustizia di Azione -partito che fa capo a Carlo Calenda- aveva fatto pervenire proprio nelle mani del ministro Nordio un dossier di 165 pagine, riassuntive di vicende giudiziarie a carico di sindaci e amministratori comunali che dopo lunghi procedimenti penali avevano visto le proprie posizioni assolte o archiviate. Ora a supportare la maggioranza è stata anche Italia Viva, con Matteo Renzi praticamente ad intestarsi il merito. Ora, a distanza di qualche mese, proprio la Presidente della Commissione giustizia del Senato, Giulia Bongiorno, ha dichiarato la sua soddisfazione “per essere riuscita a strappare agli alleati l’impegno di dar vita a un tavolo per ‘rivedere’, a questo punto, tutti i reati contro la pubblica amministrazione”.
Panorama.it ha chiesto lumi all’avvocato penalista Ivano Iai, che lo scorso 18 maggio era intervenuto innanzi alla II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati in audizione informale per sostenere le ragioni finalizzate all’abrogazione della norma.
Avvocato Iai, sarà soddisfatto! Si sta battendo per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio.
«Assolutamente! La ragione di fondo del mio impegno è quella di scongiurare l’uso strumentale di questa norma e di blocco dell’azione amministrativa in mano a chi, in luogo del confronto sul piano politico, ricorre a quello più sconvolgente e insieme demotivante del grimaldello giudiziario, realmente capace di condizionare non solo le sorti delle persone coinvolte ma anche di intere comunità».
Lei era stato audito in Commissione Giustizia della Camera…
«Il contributo offerto lo scorso 18 maggio aveva un taglio pratico arricchito di costanti richiami all’evoluzione normativa per la serie di modifiche che il delitto di abuso d’ufficio aveva subito nel corso del tempo. E il dibattito sulla proposta di abrogazione di tale reato ha avuto origine nella sua stessa storia tormentata dall’interrogativo se tale illecito dovesse avere natura necessariamente penale».
La norma dell’abuso d’ufficio è del 1930…
«Storicamente il delitto di abuso d’ufficio era stato concepito come disposizione normativa residuale di chiusura (il principio di tassatività era privo all’epoca di àncora costituzionale), era stato riformato quattro volte nel corso del tempo e non ha aveva mai superato ambiguità interpretative e difficoltà di applicazione».
Non dimentichi che i nostri lettori hanno bisogno di chiarimenti…
«Era stato proprio questo il senso della mia audizione: chiarire, non solo per i tecnici, e contestualizzare una materia della quale sentiamo parlare ogni giorno pur non conoscendone i contenuti e i significati interpretativi. Avevo esposto i concetti non nell’ottica dell’operatore della giustizia (perché sarebbe stato difficile sintetizzare le contrapposte posizioni comunque legittime) ma come cittadino tenuto a osservare e, prima ancora, a conoscere e comprendere le leggi dello Stato, e tra esse -dovendovi prestare particolare attenzione- quelle penali incriminatrici, per le quali vige l’inescusabilità connessa alla cosiddetta ignorantia iuris».
Un’audizione, la sua, sostenuta da una corposa produzione giurisprudenziale.
«La rassegna di giurisprudenza di legittimità consegnata alla Commissione aveva la finalità di evidenziare quanto le difficoltà applicative che avevano accompagnato i diversi testi del delitto di abuso d’ufficio nel corso del tempo, non fossero del tutto cessate, così come la vigente nuova disposizione non avesse smesso di suscitare ambiguità interpretative e contrasti tra le Sezioni della Corte Suprema di Cassazione».
Scendiamo nel concreto…
«L’abuso d’ufficio rappresenta la forma minima di condotta del pubblico funzionario contraria ai doveri d’ufficio: ne consegue che la risposta sanzionatoria, comunque necessaria, non debba essere individuata nelle disposizioni di extrema ratio (punite con la detenzione), ma in altre di cui l’ordinamento è già provvisto, idonee a reprimere la condotta antigiuridica, come quelle di natura amministrativa, disciplinare (il riferimento è al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici emanato con d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62) ed erariale, in caso di danni allo Stato e agli Enti pubblici».
Tale fattispecie di reato riguarda una categoria ben determinata di cittadini.
«Se in astratto l’abuso d’ufficio è reato “proprio” dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, in concreto non tutti i pubblici agenti ne sono colpiti: quanto maggiore è il livello del potere pubblico, tanto minore è la comparsa del reato; quanto meno alta è la sfera d’azione dell’ente, tanto più frequente è la contestazione di abuso ai suoi funzionari».
Cosa vuole dire?
«Semplicemente che non vi sono casi di abuso d’ufficio contestati a parlamentari, che peraltro non soggiacciono alle leggi e ai decreti anticorruzione, che sono -viceversa- applicabili agli amministratori locali con la sospensione, per esempio, di 18 mesi a seguito di condanna in primo grado. Si tocca con mano l’elenco di centinaia di sindaci, assessori, dipendenti degli enti, ogni anno coinvolti in procedimenti penali che si chiudono con il proscioglimento».
Ma il sistema, secondo lei, ha retto?
«Non ha retto, e il tempo trascorso ci dà ragione: la presenza nel sistema del reato di abuso d’ufficio non è servita a debellare i comportamenti illeciti nella pubblica amministrazione ma è stata usata, al contrario, per condizionare l’amministratore onesto, ossia colui che ha timore di compiere atti doverosi sol perché il sospetto strumentale che non lo siano è alle porte. Se il reato non venisse abrogato, sarebbe del tutto inutile la riforma del codice dei contratti pubblici che sprona all’efficace e sollecita azione amministrativa».
Sarà per questo che nella pratica amministrativa, si assiste ad una sorta di distorsione…
«La lunga storia degli epiloghi processuali per reati contro la pubblica amministrazione dimostra che nell’abuso d’ufficio incappa l’onesto, la cui azione è tracciabile e trasparente: il disonesto, infatti, non limita il malagire alle posizioni di conflitto o agli atti che generano inevitabile malcontento o addirittura sospetto, ma ricerca utilità illecite sfruttando la pubblica funzione che mercanteggia con fare subdolo in contesti corruttivi e in cenacoli segreti».
Da quanto pare di capire lei insiste sul profilo “etico e comportamentale” dei pubblici funzionari.
«Una prima riflessione, di carattere generale, riguarda i concetti di prevenzione e di etica pubblica: nel corso del tempo, il delitto di abuso d’ufficio è divenuto un esempio di etica pubblica condizionata dal diritto penale, nel senso che la pubblica amministrazione e in generale la collettività hanno subìto le conseguenze delle paure dei pubblici funzionari di fronte all’adozione dei provvedimenti esplicativi dei propri poteri. Sarebbe servita una più efficace azione preventiva».
Scendendo nell’agire delle amministrazioni locali, si è formata la convinzione che l’abuso d’ufficio fosse diventato un’arma in mano alle fazioni politiche…
«La norma si era rivelata, nel tempo, l’arma più malevola in mano all’oppositore o all’avversario dentro i consessi istituzionali: molti hanno avuto facile gioco nell’usarla, forti di una presunta neutralità del reato che, grazie alla sua generica formulazione, ha trasformato in strumento politico la segnalazione giudiziaria di un qualsivoglia labiale sconfinamento o eccesso di potere pubblico sospettato nel pubblico agente, generando una miriade di procedimenti penali infondati».
Scontri politici che si riverberano nella dialettica amministrativa
«Sono sempre più convinto che a dover essere punito debba esse il comportamento del corrotto, la sua malpractice, ed è un’assurdità che l’abuso d’ufficio sia considerato un “reato spia” di più gravi condotte, spesso usato dall’oppositore che profitta del carattere magmatico dell’illecito perseguendo sleali giochi politici personali».
Su questo profilo dottrina e avvocatura hanno da sempre insistito sull’opacità della norma dell’abuso d’ufficio…
«Si riferiscono al contesto nel quale l’abuso d’ufficio ha potuto trovare applicazione, rivelando -proprio a causa della debolezza strutturale e dell’equivocità descrittiva della norma- un’ambigua natura strumentale, usata in funzione di sostituzione morale. Tra i diversi livelli della Pubblica amministrazione colpiti, vi è un coinvolgimento preponderante dei funzionari degli enti locali, ossia delle istituzioni in rapporto più diretto con i cittadini. Non dimentichiamo che di reato di abuso d’ufficio sono indagati e imputati soprattutto in sindaci, cioè coloro che rivestono cariche elettive a più diretto contatto con i cittadini-elettori».
La sua esperienza sul campo sarà ricca…
«Gli esempi sono tanti e variegati: dalle segnalazioni sugli appalti pubblici, per presunti frazionamenti o per le proroghe dei relativi contratti in scadenza, all’adozione di provvedimenti urgenti e agli interventi in materie sensibili come i sussidi di povertà, l’edilizia, l’ambiente: sono tutti casi in cui posso personalmente testimoniare che l’amministratore onesto, raggiunto dalle contestazioni penali, perde fiducia, entusiasmo, ritmo nell’azione pubblica e spesso anche vigore fisico e psichico, dovendosi occupare della deriva patologica del proprio impegno pubblico e sociale: il procedimento penale».
Si è detto da più parti che alle contestazioni di abuso d’ufficio abbia fatto ricorso strumentale la Magistratura.
«Non ritengo di condividere questa impostazione e mi sono permesso di sollecitare i deputati della Commissione Giustizia alla riflessione su quello che appare più come un commodus discessus deresponsabilizzante: insomma una facile via d’uscita dalle secche interpretative della norma».
Vuole dire che la stessa magistratura si è trovata innanzi a difficoltà interpretative?
«Lo dimostrano le sentenze e le continue modifiche normative al reato. Se, infatti, la Magistratura (e intendo non solo quella inquirente ma anche quella giudicante) ha applicato, interpretandola nelle variegate forme espressive che conosciamo, una disposizione più volte modificata a causa delle ambiguità, lo ha dovuto fare per effetto dell’esistenza della disposizione stessa nel sistema penale sostanziale e processuale».
A proposito di magistratura “requirente”…
«Una parte lamenta che insieme alla futura abrogazione del reato sarà cancellata la tutela delle vittime, quelle escluse da gare, concorsi, appalti, sussidi e semplici diritti connessi alla qualità di utente della pubblica amministrazione. Ma è più corretto prendere atto che l’abuso d’ufficio, che finora non ha dato tutela ai danneggiati, ha dimostrato un solo spargimento di sangue: quello degli imputati assolti con dati numerici impressionanti rispetto ai casi veramente esigui di condanne».
Ecco perché lei insiste per l’abolizione dell’abuso d’ufficio…
«Mi permetto di rilevare che è nel potere del Parlamento di lasciarla o di espungerla e, in questa seconda prospettiva, non per sugellare il principio secondo il quale la Magistratura non abbia titolo per verificare eventuali illeciti penali nella pubblica amministrazione o condotte devianti nell’azione amministrativa, ma perché, banalmente, la disposizione sull’abuso d’ufficio è inutile e dannosa».
Avvocato, due motivi per cui la norma va abrogata.
«In primo luogo, “abuso d’ufficio” è un elementare sintagma rappresentativo della base minima di condotta del pubblico funzionario contraria ai doveri d’ufficio: questi, infatti, è costantemente tenuto ad adempiere a tali doveri e a non abusarne, sicché, ogni condotta che esondi rispetto a quegli stessi doveri è certamente e strettamente un “abuso”. Ma non per questo la risposta sanzionatoria deve essere necessariamente il ricorso alle disposizioni penali».
A cosa si riferisce?
«Come ho detto, vi sono i precetti del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici».
E il secondo motivo?
«Il delitto di abuso d’ufficio non ha mai avuto fortuna processuale, contandosi pochissime condanne e una serie imponente di proscioglimenti processuali o archiviazioni. E, allora, o per tale specifico delitto l’Autorità giudiziaria inquirente è sempre stata incapace di svolgere efficacemente le attività investigative e requirenti (ma è quasi imbarazzante anche solo pensarlo), oppure è il delitto in sé a risentire di un vizio congenito, che non è soltanto quello dell’insufficiente determinatezza e atipicità, ma, più plausibilmente, dell’erroneo contesto penale in cui è rifluito».
A questo punto lei si schiera con i pubblici amministratori…
«Non è una questione di schieramento ma di civiltà giuridica: la legge incriminatrice deve permettere al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio di conoscere inequivocabilmente quali elementi della condotta possano costituire atti contrari al rispetto dei doveri d’ufficio, e alla lettura del precetto penale non deve residuare il dubbio se l’azione che intendano porre in essere sia lecita o illecita».
Viceversa, cosa accadrebbe?
«Se così non fosse la norma penale incriminatrice non solo attenterebbe ai principi costituzionali di legalità e uguaglianza, ma violerebbe direttamente e concretamente i diritti umani fondamentali protetti dall’art. 2 della Costituzione».
Come replica a chi sostiene che la soppressione del delitto aprirebbe spazi di impunità per i funzionari pubblici disonesti?
«La legge penale non è il solo strumento per contrastare eventuali condotte illecite, ma è, anzi, l’extrema ratio tra le tante possibili risposte dello Stato al malcostume. La violazione dei doveri di imparzialità, trasparenza, astensione in caso di conflitti di interesse è già oggetto di specifiche previsioni normative, per esempio del più volte citato Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, entrato in vigore 10 anni fa, cui sono assoggettati quasi tutti i pubblici funzionari. Occorrerebbe estendere l’ambito di applicazione soggettivo del Codice, modificato a giugno dello scorso anno, ai dipendenti e funzionari pubblici che ne sono ancora inspiegabilmente esclusi».
E’ la concezione che vorrebbe che qualsiasi tipologia di reato assumesse importanza e risalto dal punto di vista penale?
«Chi pensa al pan-penalismo e all’infelice previsione dell’abuso d’ufficio per risolvere la vexata quaestio cade, in realtà, nel paradosso di lasciare impunite proprio le condotte che ricadono in tale fattispecie, che la storia ci insegna essere rimasta priva di efficacia specialpreventiva, nonostante tutte le formulazioni partorite dal legislatore della storia repubblicana».
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Ivano Iai, sardo di Nule (Ss), classe 1972, allievo di Giovanni Conso alla Luiss di Roma, è avvocato penalista e ricercatore in procedura penale, dopo essersi specializzato in tutela internazionale dei diritti umani fondamentali. Ha difeso personalità quali il Card. Angelo Becciu, il perito informatico Gioacchino Genchi (consulente dell’allora Sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro Luigi de Magistris), il Ministro Danilo Toninelli e magistrati tra cui l’ex Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini e l’ex Procuratore della Repubblica di Castrovillari (Cs) e già sostituto della Dda di Catanzaro, Eugenio Facciolla.
Dal 2019 è presidente del Conservatorio di Stato di Sassari e, da luglio 2023 presidente della Conferenza Nazionale dei presidenti dei Conservatori italiani. E’ stato candidato alle elezioni per il rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura nel gennaio dello scorso anno.
