I prezzi del gasolio rendono proibitivo uscire in mare e le barche si fermano, anche per protesta. Così il pescato nostrano è sempre più raro e più caro (con alcuni ristoranti costretti a chiudere). E mentre importiamo la maggior parte del «fresco», siamo diventati una Cenerentola nell’Europa del Green deal.
Sarà anche l’anno internazionale della pesca, come proclamato in pompa magna dalla Fao, l’organizzazione delle Nazione unite per l’alimentazione, ma per l’Italia rischia di essere l’estate del «fritto mesto». Il pesce di cattura sta scomparendo dai ristoranti. È un altro shock a una stagione turistica che tutti sperano della riscossa, ma che continua a essere povera (anche di soddisfazioni).
Egualmente il pesce sta scomparendo dalla dieta degli italiani che non se lo possono più permettere. Un po’ di prezzi all’ingrosso per capire: gamberoni rossi 65 euro, San Pietro 24, pezzogna 29, perfino le acciughe sono oltre i 6 euro. Ma ciò che risulta sconfortante è che nel listino dei mercati ittici di pesci italiani se ne contano pochissimi: il «fresco» che c’è viene dall’Atlantico, dal Pacifico, molto anche dai mari dell’India. Di calamari nostrani non se ne trovano (il prezzo, se ci sono, è oltre 30 euro), il polpo a 24 euro è merce rarissima. Una frittura di pesce non congelata è quasi impossibile da fare.
Così famiglie che da secoli esercitano la rischiosa, affascinante avventura del mare, sono sul lastrico. A dare il colpo di grazia alla nostra flotta peschereccia, andata deperendo nel corso degli anni senza che nessuno facesse nulla, c’è il caro gasolio. Ma anche l’Europa nel suo acritico afflato green ci ha messo del suo. Non solo impone le quote di pesca – da noi, esempio, ha contingentato il tonno rosso, che però i giapponesi vengono direttamente a prelevare – ma ci tratta come parenti poveri.
Giusto perché si sappia, il Commissario alla pesca – istituito dopo l’allargamento a 27 dell’Unione in modo da dare una poltrona a tutti – è Virginijus Sinkevicius. Viene dalla Lituania, 120 chilometri di coste sul Mar Baltico, ma ha il merito di essere uno degli estensori del Green deal. Sinkevicius ha assegnato all’Italia, per il periodo di programmazione 2021-2027, ben il 10 per cento dei fondi Faempa (secondo i criteri della Politica agricola dell’Unione riguardo al mare): 518 milioni. Il che la dice lunga su quanto il nostro Paese si preoccupi del suo settore ittico, noi che abbiamo i famosi 8.500 chilometri di costa.
È un malessere che viene da lontano quello della nostra flotta peschereccia, ma nelle scorse settimane è esploso. La protesta delle marinerie, bloccate già a marzo, negli ultimi giorni di maggio è diventata clamorosa: una settimana di fermo delle barche dell’Adriatico dalla Puglia a Chioggia. Prima Pescara, poi San Benedetto del Tronto; ad Ancona hanno fatto una manifestazione nazionale con mobilitazione massiccia degli equipaggi a cui non ha risposto nessuno se non il ministro dell’Agricoltura (sembra strano ma la competenza tocca a lui) Stefano Patuanelli, il quale ha promesso uno stanziamento di 20 milioni per mitigare gli effetti sul caro gasolio.
A Chioggia, tra i porti più importanti dell’Adriatico, barche ferme per 14 giorni. Tra gli armatori si è fatta strada l’idea che l’attività è al capolinea. La protesta dei chioggiotti, cui si sono unite barche di Caorle e di Pila, è stata clamorosa: hanno sfilato lungo il Canal Grande di Venezia fino a occupare simbolicamente gli ormeggi della capitaneria di porto. Come spiegava nei giorni caldi della contestazione Apollinare Lazzari, che guida l’Associazione produttori e pescatori di Ancona: «Ora paghiamo il carburante 1,20 centesimi al litro, una barca ne consuma sui 3 mila litri al giorno. È chiaro che non si può andare avanti. Noi, a differenza di altre imprese, non possiamo scaricare il costo sul prodotto. Serve un aiuto diretto, immediato; non chiediamo sconti o altre agevolazioni, ci occorre soltanto che il gasolio non superi un certo prezzo».
Nel frattempo, in attesa dei ristori, il gasolio è passato a 1,45 centesimi e così si sono fermati anche i pescatori del Tirreno, della Liguria, della Sicilia. Ormai il pesce pescato è diventato una rarità. Lo sanno bene i ristoranti che non lo cucinano più. A Civitanova Marche ha chiuso Galileo: «Noi serviamo solo pesce locale» dice il titolare Stefano Orso. «Se non si può avere rifiuto le prenotazioni». Ma non è un caso unico. A Pra’, Genova, non si serve più fritto misto: non c’è il pesce e l’olio di semi costa troppo. Ad Ancona è diventato un piatto quasi introvabile. Con l’olio per frittura passato da 90 centesimi a 3,5 euro al litro e i pesci, quando si riesce ad averli, che hanno subìto rincari di oltre il 50 per cento, è diventato un piatto fuori mercato. A Caorle come a Grado i ristoranti devono reinventare i menù: sono disponibili solo cozze, vongole e un po’ di «piccola pesca». L’allarme più consistente è venuto dalla Coldiretti (ha una sua associazione marinara: Impresa pesca): «Ormai 8 pesci su 10 nei nostri mercati sono stranieri» dice il presidente Ettore Prandini «e questa crisi dà ancora più spazio alla contraffazione: il Pangasio è spacciato per tutti i pesci bianchi». Da Manfredonia, dove le barche restano all’ormeggio, aggiungono: «I soldi che l’Unione europea ha stanziato per le aziende marittime dovrebbero essere spesi per abbassare il costo del gasolio». Fa eco Antonio Porzio, leader di una flotta campana ferma all’ormeggio: «Ci riconoscano subito i ristori o è la fine. Potremmo non resistere un mese in più».
Si potrebbe ritenerla una faccenda per pochi operatori economici. Non è così e comunque investe tutti gli italiani, discreti consumatori di pesce: circa 29 chili a testa all’anno. Certo, niente in confronto a portoghesi (60), spagnoli (38) e greci (32), che infatti con i loro governi hanno messo in sicurezza il comparto praticando fortissimi sconti sui carburanti e dando sussidi a tasso zero alle flotte. Senza contare la concorrenza sleale: la Spagna ci vende il 28 per cento del pesce che consumiamo. Da noi la pesca vale circa 32 mila posti impiegati direttamente per 11.900 barche (vent’anni fa erano il doppio) e un fatturato attorno al miliardo. Ma con gli scioperi hanno già perso 250 milioni. Il fattore moltiplicativo grazie alla ristorazione è di almeno quattro volte, visto che di quei 29 chili a testa circa due terzi viene consumato negli esercizi pubblici.
Il punto però è un altro. Dell’1,2 milioni di tonnellate di pesce che si ricava dal Mediterraneo, il 39 per cento arriva dai mari intorno all’Italia; peccato che nelle nostre reti ne finiscano appena 193 mila tonnellate, e dei 12 miliardi che vale il pescato mediterraneo il corrispettivo è meno di un dodicesimo. La riprova? Come le barche italiane si affacciano in acque internazionali, ci sparano contro. Ultimo caso il 2 giugno scorso, con due pescherecci presi di mira dalle vedette libiche. Solo l’intervento della nostra fregata «Grecale», in pattugliamento per gli immigrati, ha scongiurato il peggio.
Il Paese è ormai completamente dipendente dall’estero. Importiamo circa un milione e 400 mila tonnellate di pesce all’anno. L’acquacoltura – comparto in forte sviluppo – copre appena 160 mila tonnellate, anche se la qualità del pesce allevato è altissima. La prova sta nel prezzo. Un’orata italiana costa all’ingrosso 14,90 euro al chilo, la croata 6,90, quella greca 10,50, ma se arriva dalla Turchia bastano 5 euro.
La crisi del mare è vicina al punto di non ritorno, ma l’Europa sembra non preoccuparsene. Con le idee green spinge sull’acquacoltura, si occupa molto dei salmoni, pochissimo dei saraghi nostrani. Al punto che, dopo 15 giorni di sciopero delle nostre barche (altre proteste sono in vista) ha deciso di aggiungere altri quattro giorni di fermo-pesca a quelli già programmati sia in Adriatico sia sul Tirreno per il cosiddetto «riposo biologico del mare» che, dicono gli esperti, non serve a nulla. Ma ci si muove secondo la logica del Green deal. Se poi i nostri 8.500 chilometri di costa sono un valore che fatica dei nostri marinai ha preservato per millenni, non conta. Anche per questo sarà un’estate da «fritto mesto». n
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