Yeslam Bin Laden
Yeslam Bin Laden, il fratellastro di Osama.
Inchieste

Yeslam Bin Laden: «Io e mio fratello Osama»

  • Yeslam Bin Laden: «Io e mio fratello Osama»
  • E se Bush perdesse la guerra?
  • Tutti uniti contro il nemico

Articolo pubblicato l'11/10/2001

L'infanzia in collegio, i ricordi delle gite e il rapporto con l'uomo oggi più ricercato del mondo. Dalla Svizzera, il fratellastro dello sceicco rompe il silenzio. Per condannare le stragi e dare solidarietà agli Usa.

Ginevra, dalle parti di rue Charles Gailland. L' hotel particulier ha molto charme e ben s' incastra nel centro storico della città di Calvino. Qualche poliziotto con giubbotto antiproiettile si aggira con aria assai poco discreta. Un'auto dei servizi svizzeri è posteggiata proprio lì di fronte. I passanti guardano l'ingresso dell' elegante edificio e corrono via veloci. All' interno si intravede un piccolo giardino coi gerani, ben curato. La cancellata è appena stata dipinta. Yeslam Bin Laden, 52 anni, fratello maggiore del superterrorista Osama Bin Laden, abita qui. Da 26 anni. E ha un bel passaporto svizzero con la crociona su fondo rosso. Ha tre figlie, bellissime, nate dal primo matrimonio con una ragazza di padre svizzero e madre iraniana. Adesso vive con una giovane affascinante, con in corpo la voglia di fare l' attrice. Yeslam veste abiti di Savile row di ottima fattura, camicie immacolate, cravatte di Hermès, mocassini italiani fatti a mano. La casa è ricca, le decorazioni interne sono ben curate: mobili del Settecento, boiserie di radica, tappeti di Qom.

Yeslam non assomiglia affatto al suo famigerato fratello: è alto un metro e 72 centimetri, ha i capelli corti e neri, è magro e non porta né la barba né i baffi. L' uomo, molto ricercato dalla stampa di tutto il mondo, è ricchissimo, ha un patrimonio personale di oltre 400 miliardi di lire, presiede la Saudi Investment Company (Sico), una potentissima finanziaria in affari con la famiglia reale saudita. Appassionato di cinema (è stato in giuria al Festival di Cannes), generoso mecenate di attività caritatevoli (è presidente di una associazione no profit per paraplegici e portatori di handicap) Yeslam, pur essendo il primo contribuente di Ginevra, ha dovuto lottare parecchio per avere la cittadinanza elvetica, visto il suo cognome. Fino all' 11 settembre girava tranquillamente, senza guardie del corpo. Ora è più cauto. Potrebbe succedergli qualcosa. Il nipote, che studia a Lugano, è stato insultato da qualche compagno del collegio Franklin. Yeslam Bin Laden non ha mai parlato con i giornalisti. Ha rotto il silenzio con Panorama.

Che cosa si prova a essere il fratello di Osama Bin Laden?

«Prima di tutto vorrei affidare a Panorama il mio messaggio al popolo americano e al resto del mondo: "Desidero esprimere i miei più profondi sentimenti di cordoglio. Sono scioccato da tale attentato criminale di terrorismo che ha fatto morire persone innocenti negli Stati Uniti d' America. La vita è sacra e condanno qualsiasi assassinio e qualsiasi attentato contro la libertà ed i valori umani. Rivolgo il mio pensiero e la mia più grande solidarietà alle vittime, le loro famiglie ed al popolo americano"».

Quando ha visto per l' ultima volta suo fratello Osama Bin Laden?

«Vorrei dire una cosa. Tutti scrivono Osama Bin Laden. È sbagliato. Il nostro cognome si scrive Binladin tutto attaccato. Comunque, non vedo mio fratello del 1981. Noi non siamo mai stati in buoni rapporti... (la spiegazione c' è: Osama è figlio di madre yemenita, Yeslam è figlio di madre libanese. Il che significa educazione e mondi diversi. Yeslam è stato iniziato ai valori della libertà e della cultura occidentale, quei valori che si respirano nei collegi di Beirut, Stoccolma e Los Angeles, dove ha studiato. Osama ha avuto una istruzione tradizionale, molto saudita, ndr).

Ma quando vi sieti visti allora, che cosa vi siete detti?

«Nulla di particolare. Eravamo ragazzi. All' età di sei anni io ero stato mandato in collegio in Libano, tornavo a casa ogni tanto. Ci vedevamo poi ai convegni di famiglia, alle gite, come in Svezia. Anche lei avrà visto la foto sui giornali. Alloggiavamo tutti in una villa nei dintorni di Stoccolma (ora è diventata un albergo della catena Relais et Chateaux, ndr). Com' era la vostra famiglia? Una grande famiglia patriarcale araba, guidata dal capostipite, mio padre Mohammad Awad».

Yeslam a questo punto si lascia andare ai ricordi. L' educazione religiosa nella scuola wahhabita nel palazzo paterno di Gedda, lo studio del Corano a memoria, le giornate in compagnia del tutor. Il padre, morto nel 1967 in un misterioso incidente aereo in California, era nato nel 1897 a Chafeite Hadramout, in uno dei villaggi più poveri dello Yemen del Sud. Nel 1918 lasciò la prima moglie e quattro figli e andò in cerca di fortuna a Gedda: facchino nel porto della città. Un giorno, come in un racconto delle Mille e una notte, incontrò re Abdul Aziz e ne divenne il confidente. Sapeva conservare i segreti e non rubava come tutti. Per questo il sovrano gli diede una immensa fiducia. Diventò il primo costruttore del regno. Accumulò una ricchezza oggi valutata 10.000 miliardi di lire. E per ringraziare Allah di tanta grazia appese sopra la porta del suo palazzo di marmo verde a Gedda la bisaccia da facchino. «È il mio arazzo più prezioso ripeteva ogni giorno ai figli».

Da islamico credente cosa ha pensato l' 11 settembre quando ha visto l' orrore di New York e di Washington?

«Sono rimasto scioccato da quanto è accaduto. E ho condannato subito in cuor mio questo ignobile atto di violenza. Io sono contro qualsiasi atto di violenza e di terrorismo».

Ritiene suo fratello Osama responsabile degli atti che gli vengono attribuiti?

«Non so. Mi piacerebbe tanto poterglielo chiedere direttamente. Cosa che del resto potreste fare anche voi...»

Qualcuno della sua famiglia ha finanziato, sostenuto, confortato ideologicamente o personalmente Osama?

«No. Ho parlato con tutti. La famiglia conferma di aver tagliato qualsiasi legame con lui. E anche se molti preferiscono non scriverlo, noi abbiamo condannato le sue cosiddette attività sin dal 1994».

A quanto ammonta con precisione l' eredità lasciata da suo padre a Osama?

«L' eredità di Osama è stata congelata per ordine delle autorità saudite. E non posso assolutamente rivelarne l' importo. Tradirei un segreto di Stato».

Ritiene che la polemica di suo fratello contro le autorità saudite, responsabili, a suo dire, di «aver lasciato corrompere il suolo dell' Arabia Saudita dagli infedeli americani», abbia qualche fondamento?

«No. La lotta di Osama è del tutto priva di fondamento. Noi Binladin siamo una famiglia che si attiene alle leggi del Corano e dell' Arabia Saudita e non abbiamo coinvolgimenti politici di alcun tipo. Crediamo fermamente nell' opera del nostro governo. Siamo al suo fianco».

È vero che la mamma di Osama ha fatto di tutto per convincere il figlio a rientrare in patria in cambio della promessa che re Fahd gli avrebbe concesso l' immunità?

«Non sono al corrente di questo fatto. Andate a Gedda e chiedetelo a lei. Ma mi sembra del tutto improbabile che tutto ciò sia avvenuto».

Il Wall Street Journal ha scritto martedì 2 ottobre che i rapporti fra la famiglia reale saudita e la famiglia Bin Laden si sono guastati. Il re vi ha ripudiati? Vi sentite emarginati, oppure continuate a godere dell' appoggio del trono, nonostante Osama?

«Posso dire ufficialmente che noi continuiamo a godere di tutto l' appoggio possibile. La famiglia reale sa che la mia è una devota famiglia saudita. Ci sono in giro molte illazioni, molte false notizie, bisogna fare attenzione. Ci sono in giro anche molti agenti segreti».

È vero che lei, nel gennaio scorso, è stato contattato dalla Cia affinché collaborasse alla cattura di suo fratello? E in questi giorni i ragazzi di Langley si sono fatti ancora vivi?

A questa domanda Yeslam Bin Laden non risponde immediatamente come ha fatto con le precedenti. Si ferma un attimo. Riflette... «Andatelo a chiedere alla Cia. Come ho spiegato prima, la politica e gli intrighi a essa collegati non fanno per me. Non ho mai voluto e non vorrò mai essere coinvolto in queste questioni. Vorrei che le mie parole fossero ben chiare a tutti».


E se Bush perdesse la guerra?

George W. Bush sull'Air Force One il 16 settembre 2001, mentre lascia la base aerea di Offutt (Getty Images).

Articolo pubblicato il 4/10/2001

Tutti si domandano con legittima ansia che cosa potrebbe succedere se la guerra al terrorismo internazionale degenerasse. Non una risposta calibrata, meditata, chirurgica. Non la cattura vivo o morto di Osama Bin Laden, ma la strage degli innocenti. Non l'isolamento dei talebani e di altri spezzoni statali che sostengono e proteggono il terrore, ma una grande provocazione verso il mondo islamico nel suo insieme. Non il rafforzamento dei nuovi legami globali stabiliti all' indomani dell'attentato alle Torri e al Pentagono, ma il cedimento dei governi arabi o islamici moderati. Non la mobilitazione patriottica invocata da George Bush, nella forma di un patriottismo delle libertà, ma la caduta delle barriere garantiste che ci consentono di vivere come abbiamo scelto dopo il secolo dei fanatismi totalitari.

D' accordo, sono rischi terribili. Ma nessuno si domanda con semplicità che cosa accadrebbe se questa guerra gli angloamericani, che per ora sono gli unici a combatterla direttamente, la perdessero. È possibile perdere? È immaginabile che l'azione politico-militare in corso si concluda con la disfatta delle truppe speciali, dell'intelligence, dell'apparato formidabile messo in campo con immense risorse finanziarie, tecnico-scientifiche, umane?

Lo si può ipotizzare nonostante la cauta disponibilità della Cina, la convergenza più aperta dei russi, lo schieramento con riserva della Nato e dell'Europa, una certa inclinazione malgrado tutto a facilitare il lavoro della coalizione antiterrorismo da parte di quasi tutte le nazioni dell' Islam? Sembrerebbe di no. Se leggete le analisi attente del Wall Street Journal sulla guerra di nuovo tipo, senza campo di battaglia interposto tra Paesi in conflitto, potete dedurne che non si può fallire. Ci vorrà tempo, magari, ma alla fine il nemico sarà scovato e la giustizia sarà scaraventata sulle sue spalle.

Il presidente degli Stati Uniti ostenta sicurezza, e come potrebbe fare altrimenti? Ma dov'è la verità? Purtroppo la verità è che come ogni guerra anche questa la si può perdere. Si è fatto un gran discutere, tra tattici ed esperti di vario ordine e rango, del fattore spazio. Tutti sappiamo che tra qualche settimana in Afghanistan nevicherà. Che la natura nuda e montagnosa è ricca di rifugi per banditi di passo. Sappiamo che nello spazio globale è dura trovare i capitali liberamente circolanti del terrorismo. Sappiamo che la rete o web, punto di sutura tra spazio virtuale e tempo reale, è un immenso altopiano a disposizione della comunicazione sediziosa.

Ai piedi del Khyber Pass la nostra immaginazione coloniale, nutrita dei racconti di Rudyard Kipling e delle leggende futurologiche, sosta ormai da giorni in stupefatta attesa degli eventi. Ma il fattore tempo andrebbe considerato con più attenzione. Il tempo corrode le decisioni politiche difficili, lavora malignamente sulle loro giustificazioni morali e sul loro retroterra emozionale, e rende rapidamente impopolare quel che all'inizio si fa a tambur battente, a furor di popolo.

Il tempo che passa apre con le sue stagioni, i capitoli velenosi del tradimento, dell'assuefazione, del rovesciamento di segno dell' opinione pubblica, del disvelamento di interessi che oggi sono ben saldi nella coalizione angloamericana, ma domani potrebbero sfaldarsi e giocare contro. Non c' è solo un uomo che fugge o una banda che si disperde, se è vero quanto sappiamo fino a ora del terrorismo internazionale: c' è un nemico che contrattacca. E allora è nel tempo, nel cinismo del tempo, che vanno valutate le minacce di guerra chimica o bio-batteriologica, le reazioni d'allarme nell'Occidente urbanizzato depositario della massima densità dell' informazione, le debolezze e le sovraesposizioni del gigante che combatte il piccolo nano diabolico nel famoso scenario asimmetrico.

Non sono metafore, giochi verbali, sebbene tutto possa sembrare solo verbale in questa overdose di analisi e commenti su un fatto che li supera per sua natura, e in parte li cancella. È un tema vero, da chiarire per il bene della causa. Non è necessario pensare all' offensiva del Tet o alla bandiera americana ripiegata nelle mani dell'ambasciatore a Saigon con le pale dell'elicottero che agitano l' aria nel giorno della fuga. La possibilità di perdere questa guerra è più banalmente politica, parla di risultati difficili da raggiungere, di beffe tragiche sempre dietro l'angolo, di una stanchezza che può nascere alla lunga proprio dallo sforzo energico, titanico, tentato dagli americani e dagli inglesi. Solo sapendo di poter perdere una guerra, e confessando con sincerità che la conseguenza sarebbe il grande disordine mondiale, si può sperare di vincerla.

Giuliano Ferrara

Tutti uniti contro il nemico

Vigili del fuoco di New York all'opera l'11 settembre 2001 (Getty Images).

Articolo pubblicato il 27/9/2001

Gli americani sono stati sicuramente gratificati dalle manifestazioni di solidarietà che sono arrivate da tutta Europa durante la scorsa settimana. Non si è trattato unicamente dell'invocazione del trattato della Nato da parte di 19 governi, ma anche di reazioni spontanee da parte di comuni cittadini.

Questa solidarietà verrà messa a dura prova nel corso delle prossime settimane e mesi. Per gli europei non sarà facile rimanere al fianco degli Usa, quando le linee della politica estera americana, alcune delle quali non vengono pienamente condivise da importanti governi europei, verranno biasimate per aver trovato una motivazione agli attacchi. Quando inizieranno le operazioni militari (e quel giorno non è molto lontano), queste pressioni non potranno far altro che aumentare.

Alcuni governi si arrabbieranno per non essere stati preliminarmente consultati quando le forze militari americane scenderanno in campo, specialmente quando civili innocenti verranno coinvolti negli scontri, come sicuramente accadrà. Come gli americani non dimenticheranno facilmente le profferte di appoggio ricevute nei giorni successivi agli attacchi, osserveranno anche attentamente il comportamento dei loro alleati nei momenti di crisi.

Abbiamo spesso sentito i profeti di sventure predire la fine della Nato, ma, questa volta, il rischio è reale. Sono convinto che se i paesi della Nato non fossero stati decisi nel ritenere l'attacco terroristico della settimana scorsa contro gli Usa un attacco a tutti i paesi della Nato, gli americani, di qualunque orientamento politico, avrebbero considerato il trattato della Nato come lettera morta.

Così, quando scoppierà la crisi e inizierà la lotta contro il terrorismo, gli americani si troveranno di fronte agli inevitabili temporeggiamenti delle democrazie occidentali. Lo stesso vale per le insinuazioni sempre più diffuse sul fatto che l'abbiamo voluto noi: che, in qualche modo, il nostro sostegno a Israele, o la nostra difesa dell' Arabia Saudita contro l'Iraq, ci hanno contrapposto al mondo islamico e stanno persino cominciando a rappresentare una giustificazione dell'aggressione terroristica.

Anche i continui accenni al ruolo centrale delle Nazioni Unite saranno fonte di attrito. Quando la posta in gioco sarà la sicurezza nazionale, gli americani non troveranno consolazione nel pensiero dell'efficacia dell'Onu. L' America dovrebbe trovare un modo per presentare lo statuto delle Nazioni Unite come una fonte di legittimità per la propria reazione militare. Per quanto riguarda la preoccupazione che l' America dia inizio a una guerra più estesa contro tutti gli Stati terroristi, è necessario che la politica americana operi in due direzioni.

La prima prevede la formazione di una coalizione a supporto di una risposta militare decisiva contro gli attacchi al World Trade Center, diretta a individuarne i responsabili, compresi i potenziali Stati che hanno favorito l'azione. A tutt' oggi, il principale imputato è l'organizzazione di Osama Bin Laden, supportata dai talebani. Per creare detta coalizione, gli Stati dovranno prendere posizione; e chi rifiuterà di adottare misure volte all'annientamento delle organizzazioni terroristiche dovrebbe essere incluso nella seconda direzione. Questa dovrebbe essere basata su un'applicazione accelerata della legge e su una collaborazione tra i servizi segreti allo scopo di sradicare i terroristi, oltre che sulla pressione diplomatica e su sanzioni dirette a mettere fine al favoritismo di alcuni Stati nei confronti del terrorismo.

Per perseguire il confronto a lungo termine con gli Stati che favoriscono il terrorismo, come la Libia, l'Iran e l'Iraq, si impongono scelte difficili da parte delle nazioni europee, in particolare da parte dell'Italia. La politica estera italiana ha potuto vantarsi di aver assistito Stati emarginati, nella speranza di promuovere cambiamenti positivi nella politica. Tuttavia, negli ultimi anni questa linea di intervento non ha dato molti risultati. Più in generale, è fondamentale che i leader di Europa e Usa chiariscano che questi attacchi non hanno nulla a che vedere con il processo di pace in Medio Oriente.

L'organizzazione di Bin Laden attaccava bersagli statunitensi anche quando il processo di pace di Oslo stava dando buoni frutti e i leader palestinesi lodavano gli Stati Uniti per il loro intenso ruolo di mediazione tra israeliani e palestinesi. E che sappiano che quando l'America agirà, non sarà per una ritorsione o una vendetta contro il mondo islamico. Comunque, nonostante le riserve sulle questioni tattiche, i leader europei dovranno perseverare nella propria solidarietà nei confronti degli Stati Uniti. Si verificheranno probabilmente altri attacchi contro gli Usa, indipendentemente dalle azioni che verranno intraprese, e anche le città europee potranno essere prese di mira. Si tratta di una lotta a lungo termine, che richiederà determinazione e nervi d'acciaio. I nemici della civiltà vogliono dividerci. Ma noi dobbiamo rimanere uniti e sconfiggerli.

James Rubin

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