Wes Anderson nel paese dei fenicotteri morti

Oggi esce The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson.
Racconta del direttore di un albergo di lusso (Ralph Fiennes) nella Mitteleuropa pre-seconda guerra, dei suoi clienti danarosi, di un’accusa di omicidio da cui si deve smarcare.
Ma questo è secondario.

Potrebbe capitarvi quello che è successo a me.
Pensare, al minuto 11: «Che infinita rottura di palle».
Al minuto 24: «Le inquadrature fisse, le uniformi vintage, poi, qualcos’altro di inedito?».
Al minuto 27: «Ah, ecco: Bill Murray».
Al minuto 35: «Che infinita rottura di palle».
Al minuto 43, tentare una digressione estetica del tipo “Instagram killed i registi hipster”, o forse è il contrario, cioè: è arrivato prima l’uovo o la gallina? Prima il filtro Amaro o i colori saturi delle scatole di bonbon del film?

Poi arriva l’ultima mezz’ora.
Arriva lo stesso regista hipster di cui sopra a svoltarti il film.
Sì, lui c’ha i problemi di sempre. Dice d’ispirarsi a Stefan Zweig – che al confronto Sofia Coppola è una di Jersey Shore. Non rinuncia a quel solito ombelicalismo da Tribeca suo e degli amisci sua – che al confronto gli sceneggiatori dell’Esquilino sono la pancia del paese.
Eppure ti dice quello che nessuno osa dire, e meglio degli altri.

Dice: «Ehi tu, europeo seduto su quella poltrona: l’Europa è morta. Ma tipo che era già morta negli anni ’30, come ti faccio vedere io. Morta senza possibilità di defibrillazione, morta che solo voi non ve ne siete ancora accorti. E potete pure pensare di essere contemporanei, di avere piazze nuove, piste ciclabili in centro (moderni!), macchine a GPL, settimane del design, burger bar sotto casa. Potete pure pensare di vincere gli Oscar con due-tre fenicotteri sulla terrazza, senza vedere che proprio quello è il segno del vostro decadimento, pardon: della vostra decomposizione. Senza vedere che non esistereste senza la nostra necrofilia, nostra di noi che mandiamo avanti il mondo, stappando bottiglie di brunello dell’83».

Coi fenicotteri mi ha convinto. Ho capito che parlava con me. Ho chiesto scusa per i pensieri dei primi tre quarti d’ora, e ho deciso che il film era bellissimo.

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