Perché il VAR non è morto

Il mancato annullamento della rete che ha regalato alla Lazio una vittoria pesantissima sul campo dello Spezia, gol in fuorigioco netto sfuggito a tutti (VAR compreso), ha riacceso il dibattito sull'utilità di uno strumento introdotto in Serie A nel 2017 e che ormai fa parte integrante del calcio internazionale, tanto che la FIFA ne studia da tempo anche una versione light da utilizzare laddove non ci sono le stesse possibilità tecnologiche dei principali campionati in giro per il mondo.

C'è grande voglia di certificare la morte del VAR come se si trattasse di un esperimento abortito. Fallito. Travolto da qualche errore grave di arbitri e addetti ai lavori come quello di La Spezia - Pairetto che era in campo, Nasca e tutti gli altri componenti la squadra arbitrale sono stati fermati sino al termine della stagione -, oppure il mancato rigore assegnato al Torino contro l'Inter, per il quale il designatore Rocchi ha con coraggio fatto ascoltare gli audio integrali delle comunicazioni tra arbitro e sala VAR così da cercare di spiegare l'origine del grave sbaglio.

SIAMO STATI NELLA SALA VAR DI LISSONE: ECCO COME FUNZIONA

Una fretta quasi sospetta, quella di chi vuole dichiarare morto il VAR. Anche un po' antistorica, visto che la scelta dei vertici mondiali del calcio va esattamente nella direzione opposta, come dimostra la sua introduzione in Conference League a partire dalle semifinali. Il VAR non è morto, con buona pace di chi vorrebbe metterselo alle spalle. Se si esce dalle piccolezze della Serie A, gode pure di discreta salute perché col passare degli anni la sua applicazione si sta affinando e anche nei sistemi dove era culturalmente mal accettato (la Premier League prima tra tutti) è ormai parte integrante, viene analizzato e interpretato con maggiore attenzione rispetto all'inizio.

E i guai italiani? Il problema non è il VAR ma chi si siede nella sala allestita nel centro di produzione della Lega Serie A a Lissone e, in questa stagione, chi scende in campo. Perché Rocchi ha una squadra arbitrale che si sta rinnovando, ha dovuto accelerare il percorso di crescita dei giovani e sconta qualche svarione di difficile comprensione. Come quello di La Spezia, dove sarebbe bastato applicare protocollo e regolamento per evitare un cortocircuito che rischia di condizionare la corsa all'Europa e quella per la salvezza con danni incalcolabili.

Errori umani, non della tecnologia e nemmeno del protocollo, che pure non è perfetto e verrà certamente col tempo affinato. E contro gli errori umani non c'è difesa per nessuno, nemmeno per chi gli arbitri li allena e manda in campo. Semmai c'è un altro piano del ragionamento che spiega il livello di tossicità del dibattito intorno al VAR in Italia, dove già l'errore di campo era mal sopportato e quello davanti a uno schermo è diventato l'appiglio per gridare al complotto e allo scandalo.

Questo finale di stagione lo conferma drammaticamente: ci sono tifoserie intere (e forse anche le società coinvolte) convinte di dover lottare contro il Sistema con la S maiuscola, pronte ad evocare il passato, indisponibili a riconoscere la buona fede a chi arbitra e anche a considerare qualche favore ricevuto oltre ai torti. Una miscela esplosiva che è gran parte roba nostra, nel senso di italiana. Ed è l'ennesima occasione persa per rendersi più visibili e vendibili all'estero, dove degli arbitri e del VAR discutono senza metterli, però, al centro della scena sempre e comunque.

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