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(Joe Readle, Getty Images)
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Il tramonto di Liz Cheney è una vittoria di Trump

Liz Cheney non è più presidente della conferenza repubblicana: i deputati dell'elefantino hanno votato mercoledì per silurarla dal terzo incarico più importante all'interno del partito alla Camera dei Rappresentanti. Un esito tutt'altro che inatteso, visto che, negli scorsi giorni, la Cheney aveva perso anche l'appoggio del capogruppo repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy. Sopravvissuta a un voto di sfiducia lo scorso febbraio, la figlia dell'ex vicepresidente americano, Dick Cheney, non è riuscita stavolta a salvarsi. Sul suo destino politico hanno pesato le posizioni ultimamente espresse contro Donald Trump. Non solo la Cheney è tra i (pochi) deputati repubblicani che, a gennaio, votarono per mettere l'allora presidente americano sotto impeachment una seconda volta. Ma, nel corso di questi mesi, ha spesso assunto delle posizioni particolarmente critiche nei confronti dell'ex inquilino della Casa Bianca: ex inquilino che non ha esitato ad attaccarla a propria volta sul suo nuovo live blog, From the Desk of Donald J. Trump.

La motivazione del voto ostile è stata fornita, pochi giorni fa, dallo stesso McCarthy (e ricorda, mutatis mutandis, il duello tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi nel 2010): il capogruppo repubblicano non ha contestato tanto che la Cheney portasse avanti delle posizioni in contrasto con la maggioranza del partito, quanto che lo facesse da uno scranno di assoluto rilievo e prestigio, rappresentando ormai le istanze di una componente fortemente minoritaria. Le accuse di censura che stanno quindi fioccando in queste ore hanno ben poca ragion d'essere (a meno che non si considerino gli incarichi di partito come espressione di presunti diritti dinastici).

Non è al momento effettivamente chiaro se la diretta interessata resterà nell'elefantino oppure se sceglierà di uscirne. Uno scenario, quest'ultimo, che potrebbe portarla o a diventare un'indipendente o ad entrare addirittura nel Partito democratico. Non sarà un caso che, negli scorsi giorni, Nancy Pelosi abbia sostanzialmente difeso la collega repubblicana. Poche ore fa, la Speaker della Camera ha tra l'altro emesso un comunicato stampa in cui ha definito la Cheney una "leader di grande coraggio, patriottismo e integrità". Non dimentichiamo del resto che, alla Camera, l'asinello possa contare su una maggioranza risicatissima. E che un voto in più gli farebbe indubbiamente comodo. Non si tratterebbe d'altronde del primo esponente dell'establishment repubblicano a schierarsi con i dem in funzione anti-trumpista: si pensi soltanto al noto caso di Colin Powell.

Il significato politico del siluramento di Liz Cheney è d'altronde abbastanza chiaro. Si tratta di una vittoria per Trump che, nei fatti, si è ripreso il partito, sancendo definitivamente il suo ruolo di kingmaker in vista delle elezioni di metà mandato del 2022 e, con ogni probabilità, in vista anche delle primarie repubblicane del 2024. Non bisogna infatti trascurare che la posizione critica della Cheney non costituisse una voce del tutto isolata, ma che rappresentasse un riferimento per quelle alte sfere repubblicane che non hanno mai digerito l'ascesa politica del magnate newyorchese. A inizio gennaio, il sito Axios rivelò infatti non soltanto che Liz Cheney nutrisse forti ambizioni per diventare Speaker o presidente degli Stati Uniti, ma anche che quelle stesse ambizioni fossero in qualche modo spalleggiate dal potente network di suo padre Dick. In tal senso, qualora decidesse di restare nell'elefantino, non è affatto escludibile che possa cercare la riscossa con la nomination del 2024, intestandosi il vessillo dei repubblicani anti-trumpisti: un gruppo oggi non particolarmente folto, ma domani chissà.

Sbaglierebbe d'altronde chi pensasse che tra Liz Cheney e Donald Trump i rapporti si siano guastati soltanto dopo le ultime elezioni presidenziali e i fatti del Campidoglio. Pur avendo stipulato una sorta di tregua armata negli ultimi anni, i due hanno spesso mostrato divergenze (soprattutto in materia di politica estera). Insomma, il siluramento della Cheney è un duro colpo per l'establishment anti-trumpista. L'ennesimo rampollo di una potente famiglia politica che, dopo Jeb Bush e Mitt Romney, è stato arginato dall'ex presidente.

Ciò detto, bisogna comunque andare con i piedi di piombo. Perché le insidie per Trump non sono certo finite. Secondo Politico, un voto per sostituire la Cheney si dovrebbe tenere venerdì prossimo. E la candidata più forte al momento sembrerebbe essere la deputata Elise Stefanik, che ha ottenuto l'endorsement sia di Trump che dello stesso McCarthy. Pur trattandosi di una trumpista di ferro, costei sconta tuttavia l'antipatia di alcune delle frange più conservatrici del Partito repubblicano alla Camera. Questo perché, negli anni, non ha sempre votato in linea con l'ortodossia dell'elefantino (nel 2017, per esempio, si espresse contro la riforma fiscale poi approvata dai repubblicani).

Un paradosso che è soltanto apparente. Bisogna innanzitutto tener conto del fatto che la Stefanik rappresenti un distretto dello Stato di New York che è stato ininterrottamente democratico dal 1993 al 2015 (anno in cui lei è entrata alla Camera). In secondo luogo, va anche ricordato che il trumpismo – pur contenendo numerosi elementi legati alla tradizione conservatrice – presenti tratti di eterodossia rispetto alla linea repubblicana reaganiana. Un aspetto, questo, che è stato alla base della capacità di Trump di intercettare voti trasversali sia nel 2016 che nel 2020. La battaglia interna è ancora lunga. E i repubblicani dovranno scegliere se guardare al futuro o se volgere la testa verso i fascinosi fasti di un passato idealizzato: un passato idealizzato che tuttavia, specialmente dopo la crisi del 2008, gli elettori fanno sempre più fatica a seguire.

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