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Trasporto aereo nel caos, come previsto

Il trasporto aereo sta mostrando il suo lato peggiore, ovvero che il potere delle società di gestione aeroportuale è talvolta eccessivo. La notizia eclatante è che il gestore dell’aeroporto di Londra Heathrow ha chiesto alle compagnie operanti sullo scalo di non vendere più biglietti se il numero di passeggeri in transito raggiunge il numero di 100.000 al giorno. Pena non riuscire a gestirle e creare disservizi, ritardi, cancellazioni. Un controsenso, dal momento che il lavoro dei vettori è proprio quello di trasportare le persone. I motivi sono noti: durante la pandemia sono stati lasciati a casa piloti, assistenti di volo ma stando ai numeri soprattutto operatori aeroportuali, i quali per tornare in servizio devono riprendere qualifiche ma soprattutto lasciare i mestieri che nel frattempo hanno trovato, per tornare nei terminal a ricevere stipendi magari inferiori e impegni su turni molto estesi.

Insomma, se una volta lavorare in aeroporto era motivante, oggi non è più così, inoltre determinate certificazioni personali non possono essere utilizzate in altri scali, dove la formazione deve essere rifatta per adeguarsi ai manuali e alle procedure locali. Per questo alcune specializzazioni risultano sottodimensionate e non si riesce ad affrontare la quantità di lavoro che la ripresa sta chiedendo. Ovviamente le compagnie, per voce del direttore generale della International Air Transport Association (Iata), l'associazione che le rappresenta presso l’organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao), ha definito i provvedimenti dello scalo inglese come ridicoli, con William Walsh, ex amministratore delegato della British Airways, che non le manda a dire: “Heathrow sta cercando di massimizzare la redditività a spese delle compagnie”. Walsh ha centrato la questione: delegando completamente la gestione aeroportuale alle società private, gli Stati hanno perso il controllo delle loro infrastrutture.

Un aeroporto resta innanzi tutto un approdo, e per questo deve essere aperto a chi vuole arrivarci o usarlo per partire. Quando il mercato della mobilità aerea cresce a doppia cifra o quasi, come tra il 2010 e il 2019, tutto fila liscio (da Heathrow transitavano oltre 219.000 persone al giorno), ma se le società devono occuparsi della manutenzione degli scali, della loro gestione, e insieme devono versare i canoni di concessione agli erari ma in quel momento non incassano, ogni giorno che passa causa perdite altissime. Da qui le mosse dei manager, che approfittano di ogni strumento a loro disposizione, lecito ma sovente non etico, per lasciare a casa le persone. Che sfortunatamente per lavorare in aeroporto devono essere addestrate, sviluppare competenze e capacità che non si recuperano in un mese.

Un esempio: ad aeroporto aperto, non importa se per un solo volo o per cento, diverse volte nell’arco delle 24 ore un operatore percorre la strada perimetrale, i raccordi e la pista per ispezionarli, controllando che tutto sia in ordine. E spesso tra fauna, atti vandalici, fenomeni meteorologici eccetera, gli interventi tecnici necessari a fronte dei rilievi eseguiti devono essere immediati, pena la chiusura dello scalo.

C’è di più: negli aeroporti, grazie a voluminose norme di certificazione delle procedure che impongono costi, si è persa la funzione dell’approdo in favore dell’indotto. Una celebre definizione di aeroporto dice che sono “spazi che vendono tempo”, in realtà tra controlli, centri commerciali da attraversare nei terminal e procedure, tutto è concepito per sfruttare la presenza dei passeggeri ai fini commerciali e non per sveltire i transiti. Inoltre, spesso per ragioni di guadagno, le società di gestione penalizzano l’aviazione generale e privata perché aeroplani piccoli (e sovente lenti in avvicinamento) sono un impiccio non remunerativo per le operazioni di Handling. Come se il porto di una città selezionasse le imbarcazioni che possono attraccare dalle loro dimensioni e prestazioni, oppure se il casello di un’autostrada non consentisse l’ingresso ai mezzi che pagherebbero troppo poco. Per questo gli scali si stanno specializzando, con infrastrutture dedicate secondo il tipo di traffico, ma questo non è sempre e ovunque possibile.

Qualcuno ricorderà che la Francia proprio poco prima della pandemia annunciò di voler eliminare ogni volo nazionale più breve di 150 minuti in favore dei treni. Ora però ci si rende conto che proprio quei voli portano i passeggeri più pregiati per i vettori (sono in prevalenza viaggi per lavoro) e che in nome della ripresa e delle condizioni dell’industria aeronautica (Airbus, Atr, Tbm), è meglio non fare troppo gli “choosy”.

Comunque vada a finire, l’amministratore delegato di Heathrow John Holland-Kay ha affermato che fino all’11 settembre (data quantomeno impropria, ndr), non potranno passare dall’aeroporto londinese più di 100.000 persone, nonostante le previsioni e le vendite attuali di biglietti porterebbero a far transitare soltanto 5-7.000 passeggeri in più. Siamo dunque vittime delle stese regole che ci siamo imposti per garantire non tanto la sicurezza, quanto il massimo guadagno possibile dal trasporto aereo, un sistema che oggi presenta il conto: in primis alle società di gestione che non vogliono rischiare i bilanci, ma subito dopo, e in modo pesante, ai passeggeri. Saremo noi, infatti, a pagare nei biglietti l’aumento di attrattività dei nuovi contratti di lavoro degli aeroportuali come l’utilizzo del carburante ecologico (al momento mediamente 2.3 euro al litro contro 0.78 del cherosene tradizionale). Significa che in volo di due ore incide per 70 euro.

Intanto domenica 17 prenderemo un volo Linate-Heathrow (pagato circa 290 euro), e tra sciopero dei taxi e limitazioni della gestione aeroportuale vi racconteremo come andrà.

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