Thomas Piketty: quanto è pop il Marx francese

Nella prima settimana nelle librerie americane, Capital in the Twenty-First Century dell’economista francese Thomas Piketty ha venduto 60 mila copie, numeri fenomenali per un libro di economia di 700 pagine pubblicato da una casa editrice universitaria. L’editore ha dovuto ordinare ristampe a tempo di record mentre promuoveva a prezzo scontato l’edizione digitale, per non deludere chi voleva accaparrarsi l’imprescindibile lettura del momento. È saldamente nei primi posti delle classifiche di vendita, inclusa la categoria "fiction". Il libro di Piketty non è un best seller da sfogliare sotto l’ombrellone, ma in società non si può sostenere una conversazione sulla situazione economica senza citare – anche a sproposito, s’intende – le tesi di questa rockstar dell’economia intorno al più caldo fra i temi di ieri e di oggi: la diseguaglianza economica.

Piketty sostiene che il divario crescente fra ricchi e poveri è una conseguenza strutturale del capitalismo. Non è questione di cicli, congiunture e scelte politiche. Il sistema capitalistico è di per sé iniquo e generatore di sperequazione, mentre i dati che vedono fra il 1930 e il 1975 una tendenza verso l’uguaglianza sono viziati da circostanze eccezionali – una guerra mondiale, la Guerra fredda ecc.

Questo è il momento storico in cui il capitalismo torna al suo stato naturale, uno stato radicalmente ingiusto e deleterio per i valori alla base delle società democratiche. Per combattere le sue patologie, Piketty propone una patrimoniale a livello internazionale. Idea utopica, riconosce, ma il prelievo forzoso dalle tasche dei ricchi è l’unico sistema sicuro per raddrizzare le storture del capitalismo.

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