Gli opposti destini di Vittorio Colao e Franco Bernabè

Nomen omen, Vittorio sta ritto su una montagna di dollari: 130 miliardi, pari a 99 miliardi di euro, pagati dall’americana Verizon per divorziare dalla Vodafone. Franco porta sulle spalle un doloroso fardello di debiti: 36 miliardi lordi che ancora impiombano la Telecom Italia. I due manager si danno del tu, ma sono lontani come lo zenith e il nadir. Colao, in cinque anni dal suo arrivo al comando del gruppo britannico, ha arricchito un azionariato diffuso che ora incassa qualcosa come 84 miliardi di dollari e si è ritagliato un gruzzolo pari a 4 milioni di euro tra stipendio e bonus nel 2012. Bernabè cerca di combinare il pranzo con la cena, tra perdite, dividendi dimezzati e un titolo crollato in sei anni da 2 euro a 61 centesimi. Segno dei tempi, s’è ridotto l’appannaggio di un quinto, anche se arriva alla bella cifra di 2,96 milioni.

Vittorio Colao e Franco Bernabè, saliti in sella quasi nello stesso periodo (luglio 2008 e dicembre 2007), non si sono mai presi. Italiani contro italiani nel gotha delle telecomunicazioni. In realtà, la patria non c’entra granché. Il primo è un McKinsey boy adoratore del modello anglosassone: mercato e public company. Ha subito la sconfitta più amara della sua carriera alla Rcs, dove le azioni non si contano, ma si pesano. Non che Colao ceda all’antipolitica: «Vorrei fare il ministro degli Esteri» ha confessato un giorno a un amico, tuttavia nei due anni al Corriere della sera ha capito che il gioco non vale la candela. Così è tornato al suo posto in Vodafone, conquistato nel 2001 quando portò in dote l’Omnitel.

Anche Bernabè parla bene l’inglese, però nuota come un pesce nel fluido capitalismo di relazioni. Si è fatto le ossa alla Fiat, ma ha costruito una carriera nell’Eni, portato dal socialista Franco Reviglio, suo professore all’Università di Torino. All’Eni ha conquistato l’aureola del risanatore dopo lo scandalo Enimont; poi ha preso il comando in Telecom, l’impresa a più alto tasso politico fra quelle maldestramente privatizzate. Nel 1999 viene battuto da Massimo D’Alema che gli impedisce la fusione con la Deutsche Telekom e poi da Roberto Colaninno che mobilita il Settimo cavalleggeri delle banche d’affari americane. Prima di tornare alla Telecom Bernabè ha passato sette anni di vacche non proprio magre (in fondo ha lavorato per i Rothschild), seguendo gli insegnamenti di Francesco Cossiga che gli era stato vicino, tanto da chiamarlo nel comitato di riforma dei servizi segreti.

Ora si trova in un vicolo cieco. La Telecom cerca un azionista forte, per la quinta volta in 15 anni, e gli unici potenziali acquirenti sono stranieri: in prima fila gli spagnoli della Telefónica, azionisti con il 46 per cento della Telco, scatola finanziaria che controlla il 22 per cento del gruppo; sull’uscio il faraone Naguib Sawiris, ex patron della Wind ceduta al magnate russo Mikhail Fridman, e il cinese Li Ka-shin con Hutchison Wampoa; sempre evocati gli americani dell’At&t, da soli o con l’amico messicano Carlos Slim; e poi c’è la Vodafone, secondo operatore italiano nei cellulari, in cerca di rete fissa, come in Germania, dove ha appena acquistato la Kable. «L’offerta integrata è ormai il nocciolo del nostro business» sostiene Paolo Bertoluzzo appena salito al vertice come numero due a Londra. Colao finora ha guardato alla Fastweb (controllata dalla Swisscom), ma la Telecom sarebbe un boccone ben più grande e non così indigesto (il valore di mercato è 10 volte inferiore).

Che entri nella proprietà o resti fuori, in ogni caso il top manager della Vodafone ha aperto le ostilità. Del resto Colao non può sedere sugli allori. Negli ultimi anni ha tagliato i rami secchi in Francia e in Polonia. Ha dimostrato di essere un gran venditore, ma molti dubitano delle sue doti di compratore. Negli Stati Uniti ora è presente solo con la Cable & Wireless e deve recuperare gli introiti provenienti dalla Verizon Wireless. Dal Sud America è fuori. I nuovi mercati in via di sviluppo rallentano. E l’Europa diventa terreno di caccia per gli americani che vi stanno riversando i capitali in uscita dai paesi Brics. Insomma, la Vodafone ha bisogno di una nuova strategia.

Di strategie la Telecom ne ha viste passare fin troppe. Con Bernabè è prevalso il modello Merkel: austerità e tagli per ridurre il debito che superava i 41 miliardi, scarsi investimenti e bassa crescita. Gli azionisti hanno tirato la cinghia e adesso vogliono sganciarsi, anche se in tutti questi anni sono stati i primi a non aprire il portafoglio, cominciando dagli spagnoli bloccati dal conflitto d’interesse in America Latina. In Brasile sono il numero uno con la Vivo che fa concorrenza alla Tim, una eventuale acquisizione del gruppo italiano costringerebbe a tagli e scorpori.

La soluzione in stile salotto buono, escogitata nel 2007 per liquidare Marco Tronchetti Provera, non ha salvato nemmeno il capitale. Le uscite d’emergenza (da Sawiris alla H3G) si sono richiuse, è in stallo anche lo scorporo della rete con l’aiuto della Cassa depositi e prestiti. Entro il 22 si attende che Generali e Mediobanca escano dalla Telco, della quale hanno il 30 e l’11 per cento. Mentre le agenzie di rating sono pronte a spingere il debito Telecom nel bidone della spazzatura. Altro che Sun Tzu, del quale Bernabè si proclama seguace, qui siamo a Erich Ludendorff e alla guerra totale.

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