Stipendi bassi e inflazione alle stelle: ecco come nascono i nuovi poveri in Italia

Il capro espiatorio della situazione salariale italiana è difficile da individuare e, anche qualora se ne individuasse uno, non sarebbe l’unico. Scarsa produttività? Costo del lavoro? Inflazione? Tutto concorre a determinare la devastante situazione che l’Italia sta attraversando in termini di stipendi con il nostro paese fanalino di coda dell’Europa per potere d’acquisto dei salari.

Secondo l’annuale rapporto Istat gli stipendi italiani, tenuto conto dell’inflazione, invece di crescere dal 1990 al 2020 sono diminuiti del 3%, unico caso tra le economie avanzate. Un terzo dei lavoratori in Italia vive sotto la soglia salariale minima.

Contratti non standard: un male tutto italiano

Questo, secondo l’istituto nazionale di statistica, è determinato, per una buona ferra, dal moltiplicarsi dai cosiddetti contratti non standard: stagionali, part-time, di collaborazione, a tempo determinato. Si tratta di circa 5 milioni di lavoratori (il 21,7% del totale) che guadagnano meno di 12.000 euro l’anno. E se si considera che l’inflazione a maggio ha superato l’8% si evince che mille euro di stipendio oggi comprano l’8% di merce in meno rispetto allo scorso anno.

Una situazione che non si è certo andata a creare dalla sera alla mattina e che è figlia di un biennio disastroso iniziato con la pandemia e proseguito con crisi economica, guerra in Ucraina, inflazione e caro energetici ricaduti a pioggia sulle teste degli italiani.

Il salario minimo non basta

Istat riconosce che le misure di sostegno al reddito varate dal Governo Draghi hanno se non altro ammortizzato l’impatto dello tsunami economico che si è abbattutto sull’Italia "Benché le misure adottate dal governo siano state, come era accaduto durante la pandemia, puntuali e mirate – ha precisato Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat - la ripresa è stata messa a rischio dal sovrapporsi di diversi fattori: dal prolungarsi della guerra, alla crescente inflazione, agli effetti dei cambiamenti climatici, all'acuirsi delle diverse forme di disuguaglianza, che purtroppo rappresentano una pesante eredità del passato biennio”.

Chi sono i nuovi poveri

Numeri alla mano l’istituto nazionale di statistica rivela che il lavoro povero si concentra soprattutto nel settore degli alloggi e ristorazione e in agricoltura con quattro lavoratori su dieci che non percepiscono un salario minimo adeguato. Seguono i collaboratori nel settore dei servizi alle famiglie (48,5%), in quello dei servizi collettivi e alle persone (31,9%) e in quello dell’istruzione (28,4%).

Tra le professioni non qualificate (addetti alle consegne, lavapiatti, addetti alle pulizie di esercizi commerciali, collaboratori domestici, braccianti agricoli e simili) la quota di lavoratori cosiddetti “non standard” arriva al 47,5% mentre si attesta al 29,9% tra gli addetti al commercio e servizi (commesse, addetti alla ristorazione, baby sitter, badanti e simili).

A sorpresa stanno aumentando i nuovi poveri anche nelle professioni qualificate, scientifiche e intellettuali. Free lance e lavoratori a progetto il più delle volte prestano servizio senza nessuna tutela contrattuale e ricercatori universitari, insegnanti, giornalisti e professionisti in ambito artistico stanno andando ad ingrassare la fila dei nuovi poveri.

L’inflazione non è uguale per tutti

Più l’inflazione cresce, più il valore dei salari reali diminuisce e quindi coloro che vivevano poco sopra alla soglia di povertà sono andate ad allargare la fascia delle persone con un reddito inadeguato ai bisogni essenziali. Infatti il peso dell’inflazione non è uguale per tutti: per le famiglie con redditi più bassi già a marzo secondo l’Istat era arrivata al 9,4%, 2,6 punti percentuali in più rispetto al dato mensile medio reale. Questo perché il 63% del reddito delle famiglie che guadagnano meno è destinato all'acquisto di beni enegetici a uso domestico, cioè quelli che trascinano il boom dell’inflazione. Il comparto energetico ricorda Istat ha segnato un aumento dei prezzi del 48,7% da +42,6% a maggio.

In sintesi: aumenta tutto, tranne gli stipendi cresciuti di un miserissimo 0,8 per cento nell’ultimo trimestre. Per dire: in Usa gli stessi stipendi sono cresciuti del 5,5% e anche a fronte del potere erosivo dell’ondata inflazionistica il segno più resta sempre del 3%.

L’Ocse ricorsa che l’Italia è l’unico Paese Ue in cui gli stipendi dal 1990 a oggi sono diminuiti, precisamente del 3%, invece che aumentare

Con una crescita salariale dello 0,8% su base trimestrale; anche se tale cifra dovesse raddoppiare nell’ultimo scorcio dell’anno a fronte di un’inflazione a due cifre in termini reali chiuderemmo l’anno al -6%.

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