Sparatorie USA, facciamocene una ragione, la causa sono anche i videogame

I videogiochi sono stati nuovamente presi di mira come una delle cause della violenza che, ahimé, non diminuisce tra le cerchie di adolescenti negli Stati Uniti. Sulla scia delle sparatorie di massa dello scorso fine settimana a El Paso, Texas, e Dayton, Ohio, il presidente Donald Trump, che l'anno scorso ha tenuto un discorso a un summit sui videogame dopo l'uccisione di diciasette persone alla Marjory Stoneman Douglas High School, ha definito i videogiochi come un potenziale fattore scatenante tali tragedie.

Fan, appassionati e case di sviluppo, ovviamente, fanno rete e spiegano che non è così, che non può essere vero, ma la ragione dovrebbe andare oltre le logiche del mercato che vuole vendere sempre e comunque, a scapito di avvenimenti del genere.

Gioca che ti ammazza

Sia chiaro: non tutti i videogame possono causare disturbi nel comportamento e non tutti gli individui sono ugualmente influenzati dallo stesso titolo. Non è psicologia spiccia ma realtà: un cartone animato può destare paura e timore in un bambino allo stesso modo di un film horror? No. E allora perché la stessa differenza non dovrebbe esserevi in campo videoludico?

La nostra società glorifica la violenza. Lo fa anche attraverso videogiochi raccapriccanti - ha detto il tycoon.

Peraltro, l’Organizzazione mondiale della sanità a giugno, per la prima volta, ha riconosciuto la “dipendenza dai videogame” come una malattia. A maggio, in provincia di Palermo, alcuni ragazzi hanno ridotto la propria scuola come un campo di battaglia di Fortnite, emulando il videogioco e compiendo atti vandalici. Il filo conduttore è uno solo, non copriamoci gli occhi.

Games of Guns

Nei giorni scorsi, sui social network sono apparse varie liste, numeri demografici, teorie secondo cui gli Stati Uniti non sono tra i primi paesi che "consumano" videogame eppure si trovano ai primi posti in quanto a omicidi da parte dei più giovani, deputati come pubblico principale del passatempo via gamepad.

Non vi è una stretta e univoca relazione tra starsene seduto davanti alla TV e uscire di casa con una pistola, non se il paese in cui vivi non ti lascia comprare un'arma letale semplicemente ottenendo una licenza e rivolgendoti al commerciante di fiducia. I videogame, come ben spiegato da Trump, che rischia spesso di passare per un conservatore ma che si sta rivelando tale molto meno dei presupposti, è uno degli elementi scatenanti, non certo il solo.

Un po' di teoria

I Paesi Bassi e la Corea del Sud sono ai primi due posti per fruizione di videogiochi, considerando il dato pro capite rispetto agli Stati Uniti .Eppure, queste subiscono crimini in misura minore nei confronti degli omologhi americani. Una credenza nelle controversie aree mediatiche, dove l'utente dei social è l'esperto di turno, è la teoria del panico morale, chiarita magistralmente da David Gauntlett .

A suo avviso, non appena un nuovo mezzo di comunicazione, sconosciuto, arriva in società, alcune parti della società stessa lo sfruttano per esprimere la frustazione dell'era moderna, usando la convinzione che il nuovo sia il male, come catalizzatore per alimentare la non accettazione.

È importante ricordare che, rispetto alla TV, alle esperienze cinematografiche e ai telefoni cellulari, i videogiochi sono ancora in una fase inziiale di diffusione, perché prodotto indirizzato ad un segmento degli individui e non alla loro quasi totalità (come gli smartphone).

Le credenze popolari

Secondo Gauntlett, la società tende a schierarsi con una credenza preesistente, qualcosa che egli definisce una "mentalità da gregge", piuttosto che osservare in modo imparziale e valutare obiettivamente il nuovo fenomeno. Solo dopo diversi anni, a volte decenni, si estinguono paure ingiustificate e distorte. Tuttavia, queste riemergono quando sorge un altro nuovo mezzo apparentemente minaccioso. E per mezzo intendiamo non solo lo strumento ma anche una cultura, un trend, rivolto alla massa. Qualche esempio?

Secondo il Congresso USA, negli anni '50 Batman e Robin incoraggiavano non solo la delinquenza ma anche l'omosessualità. Decenni prima che Marilyn Manson ed Eminem facessero notizia, Elvis Presley era stato accusato di incitare pensieri impuri. Coprendo gli occhi dei loro figli, i genitori preoccupati esprivevano il loro sdegno sull'artista di Memphis, incolpando ciuffo e movimenti dell'anca. Credenze, appunto, che bisogna distinguere dalla ricerca scientifica.

La ricerca scientifica

Agli albori della diffusione del mezzo televisivo, negli Stati Uniti, i genitori si erano lasciati convincere che la TV facesse male ai bambini. Anni dopo, è il sociologo George Gerbner, a sostenere che consumatori "forti" di televisione, ovvero coloro che fruiscono della TV per più di quattro ore al giorno, corrono il rischio di coltivare immagini distorte della realtà. Si tratta della cosiddetta teoria della coltivazione, che varrebbe soprattutto per i bambini nativi dei nuovi media.

Sulla stessa falsariga è oggi il lavoro di Nicholas A. Christakis, sociologo e medico greco-americano noto per le sue ricerche sui social network e sui determinanti socioeconomici. Christakis, direttore del centro per la salute, il comportamento e lo sviluppo infantile del Seattle Children’s Research Institute e professore di Pediatria all’Università di Washington, è arrivato alla conclusione che più i bambini piccoli vengono esposti ai messaggi televisivi, più c'è il rischio che aumentino i casi di diagnosi di ADHD, ossia di disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Le inferenze si hanno, in media, a partire dall’età di 7 anni, considerato il campione dei 2.623 bambini esaminato.

Lo stesso si può dire dei videogiochi? Si, certamente. Sul piano comunicativo, videogame e messaggi televisivi si svolgono sullo stesso piano. Anzi, l'interazione del gioco porta ad amplificare ulteriormente l'identificazione nel mondo immaginifico riprodotto. 

Il problema non è solo qui

Passare ore davanti a GTA o a qualsiasi altro sparatutto (Trump ha parlato anche di Call of Duty) sta creando una generazione di assassini? Ripetiamo: no, se la società non li arma. In Giappone, un paese noto per il suo amore verso film violenti e videogiochi, sparare con una pistola senza licenza può portare ad almeno dieci anni di prigione, oltre alla gogna pubblica.

Se una persona desidera acquistare legalmente un fucile o una pistola, deve sottoporsi a un rigoroso processo di analisi che prevede esami scritti, autorizzazioni della polizia e controlli approfonditi, anche e soprattutto psicologici. Nonostante una considerevole popolazione di 122 milioni di persone densamente stipate per ogni città, il Giappone ha uno dei più bassi tassi di omicidio nel mondo moderno.

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