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L'estate da brivido della Spagna e di Pedro Sanchez

Come minimo è un grandissimo incassatore. Era il 25 luglio quando ilpremier spagnolodesignatoPedro Sánchezè stato sconfitto clamorosamente nel voto di investitura inParlamento. Lo stallo provocato dal suo rifiuto di scendere a compromessi con gli alleati non ha tuttavia provocato modifiche al programma di vacanze del primo ministro. Il 2 agosto è partito con la consorte e le due figlie alla volta dello splendido palazzo presidenziale de la Marismillas a Huelva in Andalusia (11 ettari di giardino, spiaggia privata, 18 stanze e 15 bagni), dove dovrebbe trattenersi per 21 giorni, rimandando ogni trattativa per la formazione del governo al ritorno a Madrid. La destinazione è di sicuro assai amena: nel palazzo, si vocifera, sarebbero appena stati eseguiti lavori di ristrutturazione per 200 mila euro (ovviamente a carico del contribuente).

La situazione politica a dir poco complicata, dunque, non sembra preoccupare troppo Sánchez che o confida di riuscire a convincere il partito di Podemos e l’estrema sinistra ad accettare le sue condizioni; oppure si sente rinfrancato dai sondaggi, come quello del 10 luglio dell’istituto demoscopico Cis, che accrediterebbe i suoi socialisti di un clamoroso 41,3 per cento dei consensi, più di tutti i partiti di centrodestra messi insieme. I sondaggi, si sa, vanno valutati sempre con cautela: ma in questo specifico caso i dubbi sulla credibilità dello stesso sono ancor di più, a sentire le dichiarazioni di José Tezanos, presidente del medesimo istituto, che ha definito Sánchez «un premier dal carattere aperto, che parla con moderazione e che ha presentato un programma con grandi progetti per il Paese». Non proprio il massimo dell’obiettività, per un sondaggista che si proclama indipendente. Tanto più che mai come ora la fiducia degli spagnoli verso la classe politica è stata a un livello così basso.

In base a un altro sondaggio, infatti, per il 38,1 per cento degli spagnoli i politici sono il secondo principale problema del Paese dopo la disoccupazione. E a proposito di numeri, lo stallo dovuto al vuoto di governo si riverbera negativamente sull’economia. Nel secondo trimestre del 2019, il Pil spagnolo è cresciuto dello 0,5 per cento, contro lo 0,7 di quello precedente. Si tratta del peggior risultato dal 2014. A luglio, inoltre, il numero dei disoccupati è calato di appena 4.253 unità, mai così pochi dal 2008 in un periodo come questo, ad alta concentrazione turistica. E il totale dei senza lavoro continua a essere sopra i 3 milioni di persone, nonostante Sánchez avesse pronosticato cifre ben diverse solo due mesi fa.

Non è un caso se la settimana scorsa persino l’autorevole Financial Times ha auspicato un’alleanza fra socialisti e il partito di centro Ciudadanos, guidato da Albert Rivera, che da tempo gode il favore del mondo produttivo iberico. «La Spagna non merita un presidente come Sánchez» ha twittato lapidario Rivera, il 25 luglio scorso. A stretto giro Sánchez ha replicato, accusando il rivale di voler dare spazio agli indipendentisti catalani...

Con questi toni, è difficile poter pensare a un accordo fra i due. Ma anche con Podemos, naturale alleato dei socialisti, le cose non vanno meglio. «Bisogna parlare con partiti anche molto distanti da Podemos» ha sentenziato Carmen Calvo, vicepresidente dell’esecutivo uscente e donna forte del Psoe, «anche perché i loro 42 seggi non garantiscono la governabilità». La risposta di Pablo Iglesias, leader della formazione di estrema sinistra, è inequivocabile: «Sánchez non ha alcun progetto per il Paese e il suo è stato un suicidio politico». Chiusa la discussione, almeno per ora.

Il problema per il centrodestra, ma non solo, sarebbe proprio rappresentato da Sánchez stesso, ma trovare una personalità in grado di unire tutti, appare al momento una possibilità remota. Ed ecco allora che in un tale contesto prende sempre più consistenza l’eventualità di nuove elezioni a novembre, la quarta volta in quattro anni. «Il problema della politica iberica è che si sono ormai formati due blocchi ben distinti, al posto dei due tradizionali grandi partiti storici» dice a Panorama Berta Barbet, politologa dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona «e quando non arrivano alla maggioranza assoluta, hanno necessità dei voti dei partiti regionali, baschi e catalani».

La questione delle autonomie regionali, infatti, continua ad avere grosso peso nei fragili equilibri della politica iberica. L’ultima crisi di governo, per l’appunto, è stata determinata dal voto contrario alla legge di bilancio da parte dei partiti catalani. Il processo contro i promotori del referendum del 2017 per l’indipendenza della Catalogna - appena iniziato a Madrid - contribuisce a rendere pesante il clima politico. L’effetto «governo bloccato» potrebbe poi dare nuova linfa a tutti coloro che soffiano sul vento dell’irredentismo catalano. Secondo alcuni, in cambio di un appoggio alle sue iniziative, Sánchez potrebbe fare concessioni in materia economica alla storica «locomotiva» del Paese. La Catalogna da sola, infatti, produce il 19,1 per cento del Pil nazionale, con il 17,4 per cento dell’intera industria manifatturiera e, nel 2018, grazie a 19 milioni di arrivi dall’estero, si è riconfermata come la destinazione turistica numero della Spagna.

Oltre alla questione catalana, un nuovo fronte si è aperto in tema di autonomie, dopo la recente elezione della socialista Maria Chivite alla presidenza delle regione basca di Navarra. Pur di riconquistare quel posto di potere dopo 26 anni, i socialisti sarebbero scesi a patti con EH Bildu, il partito vicino ai terroristi dell’Eta, che con la sua astensione ha permesso l’elezione della Chivite. Ana Beltrán, neo nominata vicepresidente del Partido popular, ha accusato i socialisti di voler consegnare la Navarra ai Paesi baschi, definendo Sánchez un «traditore».

In quest’estate di difficoltà, per il premier designato è giunto l’invito, da parte del premier francese Macron, al G7 che si terrà a Biarritz il prossimo 25 agosto, in quello che appare come un chiaro tentativo di accreditarlo a livello internazionale e di averlo come utile alleato. A Sánchez è stato spesso rimproverato di accettare condizioni molto scomode per il proprio Paese, pur di assecondare i grandi d’Europa. Un esempio lampante è rappresentato dalla politica, all’inizio favorevole all’accoglienza, con la decisione, nel giugno 2018, di far attraccare la nave Aquarius a Siviglia, togliendo Bruxelles da una situazione assai complicata. Ma dopo qualche altro sporadico caso, la politica migratoria della Spagna è cambiata radicalmente, diventando rigida come e forse più di quella del molto criticato - anche in Spagna - Matteo Salvini. I 57 mila migranti arrivati nel 2018 sono sembrati troppi anche a un governo socialista.

Nel 2019 i controlli alle frontiere sono stati rafforzati e sono aumentati i rimpatri, soprattutto attraverso le enclavi di Ceuta e Melilla (con la possibilità per la polizia di rimpatriare un clandestino entro 24 ore dal suo arrivo sul suolo spagnolo). Non solo: da qualche mese anche Madrid ha adottato una politica di respingimenti per le navi delle Ong, con multe che possono arrivare, fino a 900 mila euro, simili a quelle che prevede il Decreto sicurezza bis appena approvato dal Parlamento italiano.

La parabola di Sánchez, osservano alcuni critici, sembra assomigliare sempre più a quella dell’ex presidente socialista José Luis Zapatero, passato in pochi anni da icona della sinistra continentale a ferro vecchio della politica, dopo la sua débâcle nelle elezioni del 2011 contro Mariano Rajoy. L’ultimo premier spagnolo invitato a un G7 fu appunto Zapatero, all’Aquila, nel 2009: Sánchez si deve augurare che quella dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico fosse solo una teoria.

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