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Selfie col morto

Dopo gli scatti chiesti da alcuni fan a Maria De Filippi, praticamente davanti al feretro del marito Maurizio Costanzo durante il secondo giorno della camera ardente in Campidoglio, non si placano sdegno e polemiche per comportamenti diventati una prassi all’indomani della morte di celebrità dello spettacolo e dello sport. «Che si tratti di classe scolastica, di uno stadio, di una camera mortuaria, aumentiamo la nostra ansia di apparire»: Panorama.it ha incontrato il sociologo della Cattolica di Milano Mauro Magatti per cercare di capire senso e degenerazione di un comportamento che non sembra conoscere limiti. Neanche innanzi ad un cadavere appena ricomposto nella bara.

Professor Magatti, il “selfie con il morto” è l’ultima frontiera dell’invasività dei social media.

«Questa prassi - perché tale sembra essere diventata la posa fotografica anche durante i funerali di celebrità - appare una delle tante espressioni della cultura contemporanea nelle quali non si riescono più a porre limiti e a distinguere le diverse situazioni in cui ciascuno si trova calato. Che sia durante un funerale o sul luogo di un raccapricciante fatto di cronaca, non possiamo non registrare come l’Io sia arrivato alla fase di voler immortalare semplicemente il momento che passa: un tentativo un po' goffo di rendere indelebile ciò che è fuggitivo. Naturalmente, alla fine, si è trattato dell’occasione di essersi trovati “anima e corpo” in un momento che andava vissuto profondamente».

Siamo al teatro dell’horror? Ad un punto di non ritorno?

«I comportamenti inopportuni ci sono sempre stati, oggi capita soltanto che a riprenderli ci siano telecamere ed obiettivi che ne amplificano la portata. Semmai il tema di fondo su cui riflettere profondamente è la totale assenza dell’educazione: tutti gli strumenti tecnologici, come il cellulare, necessitano che le persone siano educate al loro uso, nelle situazioni normali come in quelle “borderline”, come trovarsi ad una funzione funebre. Ma il tema, a mio parere, è un altro…».

Quale, professore?

«La partecipazione, personale e collettiva, ad un momento così decisivo nella vita di ciascuno come la morte, che elaboriamo proprio recandoci a portare al defunto il nostro ultimo saluto, soprattutto se il “de cuius” è stato in vita una celebrità del mondo dello spettacolo, dello sport, della politica, nel quale ci siamo forse anche identificati. E’ chiaro che la visibilità mediatica elevata non fa altro che amplificare sia il senso di dolore per la scomparsa, che la nostra stessa voglia di esorcizzare la morte come aspetto connaturale della nostra esistenza. Certo, i comportamenti poco consoni lasciano l’amaro in bocca».

Partecipare al dolore altrui è un comportamento antropologico…

«Recarsi al funerale della Regina d’Inghilterra, di Gianluca Vialli o di Maurizio Costanzo significa riprodurre schemi cristallizzati nel tempo: da sempre nelle nostre città o nei piccoli centri si va al funerale, anche di persone che si conoscevano solo di vista. Gli eventi di questi ultimi giorni, ovviamente, ci hanno spinto a guardare queste manifestazioni popolari, con tanto di selfie, con uno sguardo severo che non andrebbe utilizzato, perché alla fine, si tratta i tentativi poco consoni di esprimere un’esigenza profonda».

Passiamo all’antropologia: emerge il bisogno di esorcizzare la morte?

«Dobbiamo distinguere: la partecipazione collettiva al dolore, anche per la scomparsa di una persona mediaticamente nota, rimane pur sempre un nobile atto di pietà, con il funerale trasformato in rituale laico collettivo. Quando, invece, all’interno di questa manifestazione si sviluppa un comportamento del tutto inappropriato, come il farsi riprendere accanto la bara, ad esempio vicino alla vedova, si perde quella naturale ritualizzazione, finendo per non capire realmente il senso della cerimonia cui si sta partecipando».

Una sorta di uso improprio della ritualizzazione?

«Si vorrebbe sfruttare il funerale di una celebrity per ottenere una foto da conservare o, nella peggiore delle ipotesi, da pubblicare come trofeo sul profilo del proprio social network».

Cosa si nasconde dietro la smania di apparire sui social o di avvicinare le persone famose anche nelle situazioni meno appropriate, come un funerale?

«Sicuramente la nostra sete di apparire. La nostra società contemporanea è diventata veloce e immediata, nella quale le relazioni appaiono instabili o anche evanescenti, per cui ognuno di noi - nel “quarto d’ora di celebrità” di Woody Allen - va alla ricerca di una foto cimelio da pubblicare su Facebook o Instagram. Così si prova la sensazione, aggrappandoci alla notorietà della persona scomparsa, di dare lustro, valore e senso ad una vita invece condannata, in qualche caso, nella spirale dell’irrilevanza».

Tornando al funerale di Maurizio Costanzo, ha colpito l’atteggiamento della moglie Maria De Filippi, dimostratasi apparentemente molto disponibile, accettando di farsi immortalare accanto a due fans.

«Eh, bisognerebbe chiederlo alla De Filippi. Sono convinto, visto che per il suo spessore mediatico non ha certo bisogno di una foto in più sui social, che il suo comportamento in quel frangente debba essere letto nel senso di dare comunque valore al rapporto con i propri fans anche nel momento del dolore. Una situazione analoga a quella che si verifica nei contesti “ordinari”, quando durante un funerale arriva un parente che non si vede da tempo, e lo si abbraccia come se nulla fosse».

L’uomo che ha osato chiedere un selfie con la De Filippi pare sia scomparso da tutti i profili social. Anche i social network soggiacciono alla dura legge del “contrappasso”?

«Anche con la complicità della De Filippi, quel fan si è esposto al giudizio del popolo dei social media: forse si sarà vergognato, sopraffatto dall’implacabile tribunale dell’opinione pubblica e ha dovuto piegare verso un ritiro della sua immagine social, prima di divenire oggetto di attacchi pubblici di ogni sorta».

Lei è un sociologo, forse occorrerebbe uno psicologo…

«Mah, stiamo parlando del piano dei comportamenti sociali e non di quelli personali deviati, per cui il sociologo è la figura adatta. In realtà mi viene da sottolineare che quello del “selfie con il morto” sia, alla fine, uno dei tanti aspetti della società contemporanea: viviamo con la sensazione che con i social siamo legittimati ad ogni comportamento, senza distinguere una classe scolastica da uno stadio, una camera mortuaria da un seguìto programma del palinsesto televisivo. Mettendo tutto sullo stesso piano, aumentiamo la nostra ansia di apparire…».

Mauro Magatti, milanese, classe 1960, è ordinario di sociologia all’Università Cattolica di Milano di cui è stato preside di facoltà. Sociologo ed economista, dirige il Centro di Ricerca ARC (Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change) ed è editorialista del Corriere della Sera e di Avvenire. È membro dell’Editorial Board dell’International Journal of Political Anthropology, del Comitato Scientifico di Sociologica e del Comitato di redazione di Studi di Sociologia e Aggiornamenti Sociali. L’ultimo saggio, Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà? -scritto a due mani con la collega e moglie Chiara Giacccardi, (Il Mulino 2022) - è una serrata analisi sul definitivo tramonto della stagione della globalizzazione.

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