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Scissione PD: i vantaggi e i rischi per Renzi

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Matteo Renzi all'hotel Parco dei Principi durante l'assemblea nazionale del Partito Democratico, Roma, 19 febbraio 2017.
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L'ex presidente del consiglio Matteo Renzi durante l'assemblea nazionale del Pd all'Hotel Parco dei Principi, Roma, 19 febbraio 2017
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Matteo Renzi durante il suo discorso alla direzione Pd, Roma, 13 febbraio 2016
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L'ex premier Matteo Renzi - gennaio 2017
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Matteo Renzi nel luglio del 2017

Sono giorni e ore tormentate per il popolo del Pd costretto a fare i conti con una scissione di cui ad oggi ancora non si conosce l'esatta portata (Michele Emiliano ha scelto di restare nel Pd e di sfidare Renzi al congresso).

Nemmeno gli accorati e autorevoli appelli all'unità giunti da più parti sembrano infatti in grado di far rientrare la crisi. Dopo queste ultime convulse giornate, Matteo Renzi se ne è andato negli Stati Uniti dove si fermerà per qualche giorno. Mettere una distanza, anche fisica, tra sé e il suo futuro politico, dovrebbe aiutarlo ad analizzare con più calma i rischi e le opportunità che la nuova situazione comporta.

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Ecco cosa l'ex segretario dem potrebbe aver guadagnato dall'uscita dal Pd della minoranza pervicamente anti-renziana. 

La colpa della scissione? Degli altri
La stragrande maggioranza dei suoi sostenitori, ma anche numerosi iscritti ed elettori dem, pur senza essere degli ultras renziani, attribuiscono agli altri la rottura. A giudicare dalle notizie che arrivano dai consigli regionali e comunali, ossia dai famosi “territori”, ma anche dalle bacheche Fb di tanti militanti, in pochi sembrerebbero disposti a seguire chi sta uscendo dal Pd.

In parte perché non ne capiscono le ragioni, in parte perché, proprio perché le capiscono, non le condividono. È diffusa infatti l'impressione che dietro una scelta così traumatica ci siano soprattutto oculati calcoli elettorali. Matteo Renzi guadagna, in questo senso, il discredito nei confronti dei suoi avversari che, abbandonando un partito in cui la loro futura candidatura risultava a rischio, si sono garantiti un posto per sé nel prossimo Parlamento.

Nuovi elettori
Non c'è solo il cosiddetto “popolo del Sì”, quel 41% che al referendum del 4 dicembre aveva scelto la riforma costituzionale, a garantire a Renzi una corposa base elettorale. La fuoriuscita dal Pd di alcuni dei più illustri eredi della tradizione comunista, poi Ds, come Massimo D'Alema, Pier Luigi Bersani, Enrico Rossi, potrebbe aver tolto a tanti simpatizzanti dell'ex segretario dem ogni alibi per non votarlo.

Matteo Renzi potrebbe ora riuscire a pescare consensi tra elettori centristi, liberali e anche di centrodestra. Soprattutto tra quelli che faticherebbero a sentirsi rappresentati da una colazione di cui facessero parte anche forze radicali come Lega Nord e Fratelli d'Italia.

L'irrilevanza mediatica degli scissionisti
Finché sono rimasti nel Pd, le iniziative degli avversari interni di Matteo Renzi hanno sempre goduto di ampia copertura mediatica proprio per la possibilità di sfruttarne dall'interno il potere condizionante. Matteo Renzi scommette che questa “appetibilità mediatica” si disperderà ora in breve tempo. Le vicende passate gli danno ragione: da Pippo Civati a Stefano Fassina, quasi tutti gli ex sono quasi scomparsi dai radar e sembrano ormai condannati all'irrilevanza.

Peso elettorale degli scissionisti
Prevedere oggi quanto possano ottenere tra diversi mesi Bersani e gli altri nelle urne è un esercizio per sondaggisti da praticare con una certa prudenza. Ma se fosse confermata la forbice tra i 5 e il 7% stimata in questo momento, Renzi ci avrebbe sicuramente guadagnato visto che una percentuale del genere, che all'interno del Pd sarebbe stata per ciascuno di loro molto più alta, adesso dovranno invece dividersela in molti.

Se già stanno litigando sul nome da dare ai nuovi gruppi parlamentari che dovrebbero essere formalizzati venerdì (Enrico Rossi spinge su un riferimento al socialismo, Bersani all'Ulivo), Renzi scommette che presto dovranno fare i conti, per dividersi, sulla futura leadership del nuovo partito e sul ruolo al quale uno come Massimo D'Alema non vorrà certo rinunciare.

Michele Emiliano
La decisione di Michele Emiliano di rimanere nel Pd e di sfidare Renzi al congresso rappresenta per Renzi un indubbio vantaggio, in questa fase probabilmente anche il principale. Intanto perché così il fronte degli scissionisti ha dato prova di essersi spaccato ancora prima della nascita dei nuovi gruppi parlamentari.

In secondo luogo perché la partecipazione del governatore pugliese alla sfida per la segreteria legittima le primarie e il risultato che uscirà dai gazebo. Infine perché i voti del governatore pugliese potrebbero rivelarsi fondamentali per la tenuta elettorale del Pd nelle regioni meridionali.

Tuttavia, dietro la scissione, per Matteo Renzi si annidano anche numerosi rischi. Ecco quali sono.

Colpa della scissione: di Renzi
Se una parte consistente degli elettori dem attribuisce la rottura agli scissionisti, c'è una parte forse meno consistente ma politicamente molto importante di chi è invece rimasto dentro il Pd, o che da un punto di vista formale non ne fa più parte ma conserva tuttavia una grossa influenza, che invece imputa la colpa dell'implosione proprio a Renzi e ha già cominciato a rinfacciargli la sua “inadeguatezza”.

"Lui pensa di aver vinto e invece ha perduto – ha detto Gianni Cuperlo - perché le minoranze avranno fatto i loro errori ma se il Pd si rompe la responsabilità più grande è di chi stava alla guida”.

Enrico Letta ha affidato il suo pensiero a un post su Fb. Il direttore della scuola parigina Science Pd, che dopo la cacciata da Palazzo Chigi non rinnovò la tessera e si dimise da parlamentare, ha lanciato un allarme che insieme è un rischio proprio per Renzi, ossia quello di aver aperto – per dirla con le parole dell'ex premier - “un'autostrada a Grillo, Salvini e al ritorno di Berlusconi”.

Peso elettorale del nuovo Pd
Anche in questo caso è bene ribadire che i sondaggi vanno presi con tutte le dovute molle ma Renzi non può escludere il rischio che la scissione possa avere dei contraccolpi per il suo partito sul piano elettorale avvantaggiando non solo il Movimento 5 Stelle (che potrebbe diventare il primo partito) ma anche il centrodestra.

Secondo alcuni istituti demoscopici il Pd sarebbe infatti già crollato al 22-23%, che è quanto gli rimarrebbe se fosse fondata la stima che dà gli ex tra il 5 e il 7%. Calcoli forse un po' troppo ragionieristici ma che da nuovo segretario dem (se sarà rieletto al congresso) non potrà non tenere in considerazione anche in prospettiva le future alleanze che la logica proporzionale, riesumata dalla sconfitta referendaria e dalla bocciatura dell'Italicum, gli imporrà di stringere nel prossimo futuro.

Libertà di manovra
Anche se può sembrare paradossale, non è detto che senza Bersani tra i piedi Renzi otterrà maggiore libertà di manovra interna. Se è vero che nessuno dei suoi eventuali competitor per la carica di segretario dei dem ha da solo la forza di mettere in discussione la sua leadership, l'unione di tutti loro potrebbe rivelarsi un fattore di forte condizionamento.

Non potendo più imputare ai suoi avversari (che sono rimasti nel Pd) di condurre contro di lui una battaglia di retroguardia e di essere animati da semplice senso di rivalsa nei suoi confronti, Renzi ha perso un elemento di forza. Nel confronto sui temi veri (scuola, lavoro, ambiente, diritti) che interessano il Paese, la nuova minoranza dem che potrebbe coagularsi intorno a una figura come quella di Andrea Orlando o Cesare Damiano, potrebbe pesare molto più di quanto abbiano pesato finora Bersani, Speranza e in passato D'Attorre o Civati.

Congresso
Nicola Zingaretti, Maurizio Martina, Gianni Cuperlo, i prodiani, potrebbero infatti convergere tutti su una candidatura competitiva come sarebbe quella di Orlando. Nelle primarie aperte Renzi non dovrebbe avere problemi. Ma il voto degli iscritti rischia di riservargli qualche brutta sorpresa con la conseguenza che anche nei prossimi 4 anni da segretario egli si ritroverebbe a gestire un partito che a Roma è compatto intorno a lui ma in periferia no e con numeri negli organi interni (direzione e assemblea) non più così schiaccianti.

L'etichetta
C'è infine, per Renzi, il rischio di essere ricordato non tanto come il segretario della rottamazione, ma come quello della scissione. Un'etichetta che non gli farebbe onore e che difficilmente potrà portargli fortuna. Se un gruppo di militanti sta infatti festeggiando la fuoriuscita di personaggi come D'Alema o Speranza (considerati dei traditori, rancorosi, incapaci di accettare una leadership diversa dalla loro) tanti altri, soprattutto tra gli over 50, faticano a comprendere come sia possibile che proprio alla vigilia del decimo compleanno del loro partito, l'unico in Italia a essere nato per fusione, ci si ritrovi a dover fare i conti con una rottura tanto traumatica e dolorosa.

L'angoscia espressa da Romano Prodi che ha parlato di “suicidio”, l'eloquente silenzio di Giorgio Napolitano, l'inascoltato appello all'unità di Walter Veltroni ne sono illustre testimonianza. E per Matteo Renzi un campanello d'allarme.

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