La ripresa economica dell'Italia, spiegata bene

UPDATE: L'Istat nel mese di agosto ha pubblicato prima i dati sulla crescita dell'industria manifatturiera (+5,3% giugno su maggio) e poi quelli relativi al Pil (+0,4% secondo trimestre/primo trimestre, +1,5% anno su anno), i migliori dal 2011. Segnali chiari di una ripresa in corso. Ma non tutto ancora gira come deve. La nostra è una ripartenza troppo lenta e che soprattutto ancora non vede segnali nel settore che più interessa la società: il lavoro. Come spieghiamo in questo articolo pubblicato la prima volta l''11 agosto.

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Ripresa, espansione, miniboom? Che cosa sta accadendo alla lumaca Italia da anni incollata a una crescita, si fa per dire, dello zero virgola? La spinta viene dall’industria manifatturiera. A giugno l’Istat ha registrato un balzo del 5,3%, rispetto al mese precedente e del 2,2% nel primo semestre. Un’accelerazione notevole, non una fiammata, perché le fabbriche hanno ripreso a girare già dalla seconda metà dello scorso anno.

La spinta è venuta in particolare dall’auto (13,6%), ma ancor meglio ha fatto la farmaceutica (+18,5%) che si conferma settore d’eccellenza, molto bene anche il petrolio e la metallurgia, e naturalmente la produzione di energia elettrica (+10,5%) conseguenza dell’accresciuta domanda.

Il trend dovrebbe continuare nei prossimi mesi e ciò spinge il governo a valutare se aggiustare al rialzo le previsioni di crescita del prodotto interno lordo. Il Fondo monetario internazionale le aveva portate all’1,3% potrebbero salire all’1,4%. Meglio, ma ancora poco rispetto alla Spagna, nostra principale concorrente in questa fase, che corre a ritmo del 3,5%, dimostrando di aver smaltito prima dell’Italia gli effetti della lunga recessione.

Un altro segnale evidente che la domanda tira è l’aumento dei posti vacanti. Le aziende cercano personale da assumere e non lo trovano. In particolare mancano i giovani fino a trent’anni. Così, dopo tanta preoccupazione (e una valanga di retorica) sui giovani disoccupati, si scopre non solo un deficit di operai metalmeccanici, ma di ingegneri, specialisti, programmatori, tecnici informatici, sì persino le professioni tipiche dell’era digitale.

Cosa significa

Ciò la dice lunga sulle contraddizioni strutturali di un paese dove un’intera generazione viene parcheggiata in scuole e facoltà universitarie dilettevoli, ma sostanzialmente inutili se si vuole trovare un lavoro. Qualcosa del genere era accaduto quindici-vent’anni fa in Germania costretta a importare ingegneri dall’India, poi una radicale riforma scolastica per rilanciare gli studi tecnico-professionali ha invertito la tendenza.

La nuova crescita è favorita senza dubbio dagli incentivi concessi con il piano industria 4.0 e molti si chiedono cosa accadrà quando verranno meno. La scommessa è che, a quel punto, la modernizzazione del sistema industriale sarà andata così avanti da poter camminare sulle sole gambe del mercato. Secondo alcuni studiosi come Marco Fortis o Fulvio Coltorti (storico capo ufficio studi di Mediobanca) si è sempre sottovalutata la profondità della riconversione avviata dal tessuto produttivo italiano, soprattutto le medie imprese, le multinazionali tascabili che occupano oggi nicchie d’eccellenza nell’economia globale.

Durante la crisi si è seminato, adesso si raccolgono i frutti. La ripresa tuttavia, è basata non solo sulla offerta, ma sul rilancio della domanda, quella estera (le esportazioni italiane tirano tanto che la bilancia dei pagamenti continua a registrare un consistente attivo) e quella interna. E proprio qui sta la novità.

Cosa manca: il lavoro

“Vedete che i bonus hanno funzionato”, dicono i renziani preparando gli argomenti per la prossima campagna elettorale. E ha funzionato anche il jobs act visto che aumentano gli occupati con contratti a tempo indeterminato.

In realtà proprio il mercato del lavoro è uno dei punti deboli di questa ripresa. La disoccupazione resta sopra l’11%. Rispetto al picco occupazionale registrato nell’aprile 2008 sono stati distrutti 1 milione e 51 mila posti di lavoro; ne sono stati creati 995 mila alle dipendenze, anche grazie agli incentivi governativi, ma si sono persi altri 157 mila lavoratori indipendenti.

A mano a mano che gli sconti sui contributi sociali si riducono, diminuiscono le assunzioni a tempo indeterminato. Bisognerà vedere quanti posti di lavoro flessibili verranno generati dalla ripresa della domanda interna e a che punto si arresterà il collasso di artigiani, bottegai, professionisti, falcidiati dalla recessione.

Interrogativi per ora senza risposta che non hanno, evidentemente, un significato solo economico. Le tensioni sociali e la loro ricaduta politica hanno il loro brodo di coltura proprio nella irrisolta questione del lavoro.

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