Il flop della politica sul Quirinale porta all'elezione diretta del presidente della Repubblica

Lo show del Quirinale si sta allungando pericolosamente. Per carità, la scelta del capo dello Stato non è un’operazione da poco: non siamo di quelli convinti che “presto” sia necessariamente sinonimo di “bene”. Ma è pur vero che siamo giunti al quinto giorno di votazioni, e non c’è uno straccio di filo logico nelle trattative. Non sembra esserci alcun progetto tra i partiti, alcuna luce in fondo al tunnel. Come in una telenovela, assistiamo quotidianamente a intrighi, ricatti, accuse di tradimento, accoltellamenti, scenate di gelosia all’interno delle stesse famiglie del centrosinistra e del centrodestra. In questa soap opera ogni giorno vengono gettati nella sceneggiatura nuovi personaggi – i cosiddetti quirinabili – che qualche istante dopo finiscono carbonizzati nella fornace dei veti reciproci. Il famoso kingmaker non può esistere: i numeri impediscono che esista. Ci troviamo di fronte – come sospettavamo – a uno scontro di debolezze. Quelle di capipartito che controllano a fatica le proprie truppe. O peggio, come nel caso di Giuseppe Conte, non le controllano affatto. Insomma, a giudicare dal livello di tensione, è come trovarsi di fronte al primo capitolo della campagna elettorale: iniziata troppo, troppo presto.

Certamente questa maratona surreale, se da un lato diverte moltissimo gli addetti ai lavori, dall’altro sta lasciando gli italiani sbigottiti: nessuno, tra i comuni mortali, è in grado di decrittare il linguaggio pokeristico dei leader in campo. Sono meccanismi incomprensibili, e quel che è peggio, inconcludenti. Il famoso paese reale non è mai stato così lontano: da un lato il palazzo ostaggio dei veti incrociati, dall’altro le famiglie stremate da una pandemia che ha condizionato le loro vite, i giovani alle prese con una scuola a singhiozzo, le imprese che soffocano torchiate dall’aumento del costo dell’energia e del caro-materiali. Tutto intorno, il mondo si interroga sul ciglio del burrone di una crisi internazionale in Ucraina di cui non si vedono sbocchi incoraggianti. E noi siamo ancora fermi a Montecitorio, alle prese con l’ennesima conta.

Non sappiamo se il rito stanco cui stiamo assistendo sarà l’ultimo atto della terza repubblica. O magari si tratterà dell’ultimo esperimento di una votazione quirinalizia obsoleta, che lascerà il posto al presidenzialismo con elezione diretta del presidente. Sarebbe però un esito triste se questo romanzo Quirinale fosse il canto del cigno di questo sistema partitico. Ma l’impressione sembra essere questa. Nel migliore dei casi, la classe politica si è svegliata all’ultimo, e sta portando avanti – oggi – trattative che bisognava condurre due settimane fa. Nel peggiore dei casi, ci troviamo di fronte a un livello di talento politico non eccelso, che ci fa rimpiangere la caratura dei protagonisti della prima repubblica.

Se non si troverà la soluzione del rebus, entro 48 ore, probabilmente scatterà il piano d’emergenza. L’ondata di consensi per un Mattarella Bis, con buona probabilità, esonderà fino a raggiungere il quorum. E il presidente uscente, implorato dall’intero quadro politico, dovrà disdire il contratto d’affitto della sua nuova casa romana e inchiodarsi sul Colle. Così facendo, usciremmo dall’impasse sul breve periodo, ma nel modo peggiore possibile: con una certificazione di totale impotenza della politica, e un conseguente, perpetuo, strapotere della tecnocrazia. Non sarebbe un bel finale: e gli italiani non se lo meritano.

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