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Proteste a Ginevra il 16 aprile 2021 contro la pulizia etnica e gli stupri in Tigray (Ansa).
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Etiopia: la pulizia etnica del Tigray nell'indifferenza della comunità internazionale

«In Etiopia si sta compiendo il genocidio dell'etnica tigrina a opera del governo etiope in accordo con l'Eritrea». Sono accuse gravissime, quelle che lancia una fonte di Panorama contro il presidente Abiy Ahmed Ali, celebrato dalla comunità internazionale con il premio Nobel per la pace neanche due anni fa, l'11 ottobre 2019.

Ma sono accuse fondate. A pronunciarle non è solo la nostra fonte, un operatore umanitario che opera in Etiopia e che per ragione di sicurezza chiede l'anonimato («Se mi beccano, mi fucilano»). A denunciare una «sistematica campagna di pulizia etnica» in Tigray sono gli stessi Stati Uniti, come testimonia un rapporto interno citato dal New York Times. Il governo statunitense non si è azzardato a parlare di genocidio, come fa la nostra fonte. Resta il fatto che l'accusa di pulizia etnica non è trascurabile.

La tragedia in corso nel Tigray, la più settentrionale delle 10 regioni in Etiopia, è stata definita la peggiore crisi umanitaria del decennio. Non a caso, il capo dell'agenzia statunitense per lo Sviluppo internazionale Usaid, Samantha Power, l'ha definita una «situazione catastrofica».

Negli ultimi nove mesi, il conflitto ha provocato decine di migliaia di morti (solo nell'ultima settimana sono stati ritrovati decine, se non centinaia, di cadaveri nel fiume Tekeze, con le mani legate dietro la schiena), 1,7 milioni di sfollati e oltre 63.000 rifugiati in Sudan. Secondo le Nazioni Unite, oltre 5 milioni di persone, la stragrande maggioranza degli abitanti del Tigray, hanno urgente bisogno di assistenza.

«In Tigray letteralmente si muore di fame» denuncia la nostra fonte, che non a caso parla di genocidio. «Da novembre sono stati chiusi acqua, elettricità, comunicazioni e trasporti. E quindi accesso ai viveri e ai combustibili. Sono stati poi bruciati i raccolti, demolite tutte le fabbriche e distrutti 38 ospedali su 40. Ne sono rimasti due, a distanza di 250 chilometri l'uno dall'altro».

Una catastrofe, che ha portato ad accuse di atrocità, fra cui spaventose violenze sessuali. «Come armi di guerra sono stati usati gli stupri, dalle bambine di cinque, sei anni fino alle donne di 80 anni». Questo a opera dei governativi? «Soprattutto degli eritrei. I federali etiopi non erano così malvagi. Gli eritrei, invece, sono entrati in Tigray come bestie feroci. Sono arrivati in Etiopia dopo che Abiy ha fatto di pace con Isaias Afewerki, il dittatore eritreo. E questo, che dagli anni Novanta non ha mai digerito la batosta che si era preso dai tigrini, si è vendicato. Ha detto ai suoi uomini: "Andate in Tigray e ammazzate, stuprate, rubate. Fate quello che volete". Non ha dato loro una lira di stipendio, una coperta, una fureria per cucinare. E quindi hanno svuotato dispense, negozi, scuole, ospedali…».

Una specie di orda barbarica? «Erano come i lanzichenecchi. L'ordine era: uccidere. Si tratta di un genocidio. Normalmente nelle guerre sono i militari che combattono. Invece qui sono i civili a essere presi di mira». L'operatore umanitario è turbato e abbassa la voce: «Io credevo di avere visto tutto, ma non avrei mai pensato a una cosa del genere. Le bambine stuprate non saranno mai più donne normali: sono talmente lacerate… I chirurghi tentano di ricucirle, lasciando le vie urinarie funzionanti, ma non hanno più organi genitali. Non hanno più la vagina, tantomeno l'utero. Cosa resta di un piccolo utero, dopo essere stato stuprato da 10 soldati per giornate intere?».

Poi c'è il problema delle donne sposate, quelle stuprate per settimane e settimane da gruppi di soldati, rimaste poi incinte e che non sono riuscite ad abortire. «Sono disperate. Ci dicono: "Io questo bambino non lo voglio. È maledetto"» racconta l'operatore umanitario. «Per giunta, a causa della cultura locale, i mariti le guardano come se fossero colpevoli, "sporche". E non le toccano più: le tengono in casa solo perché hanno altri figli, come domestiche gratuite. Il rischio è che, una volta partoriti, i neonati vengano abbandonati. E che le iene ne facciano un pasto».

Una galleria degli orrori, in cui il Covid è l'ultimo dei problemi. «Magari avessimo solo il Covid!» sbotta la fonte di Panorama. «Morire di Covid, morire di colera, morire di malaria, morire di fame o di sete o morire sparati, che differenza fa? Il World Food Program e Save the Children, quando riescono, portano latte in polvere per i più piccoli. Ma le mamme non hanno di che far bollire l'acqua, quindi usano latte buono in acqua sporca. In questo modo un neonato se ne va in 24 ore».

La situazione è drammatica anche dal punto di vista economico. «Non c'è più valuta. Le banche sono chiuse. I dipendenti statali, come gli insegnanti, fino al mese di maggio sono stati pagati con assegni (che, con le banche chiuse, non potevano ritirare). Ora non ricevono neanche gli assegni. Per non parlare dei disoccupati... In Tigray c'erano fabbriche con 7-10.000 operai. Ora sono tutte chiuse». C'era anche Calzedonia, vero? «C'era Calzedonia a Macallè. Adesso non c'è più. La biancheria per la casa che si trova alla Metro veniva prodotta dalla Almeda Textile Manufacturing, che aveva due sedi, una delle quali in Tigray. Ora anche quella è chiusa».

Già lo scorso aprile, il ministero etiope del Commercio e dell'industria aveva ammesso che stava perdendo 20 milioni di dollari al giorno in mancate esportazioni, a causa della chiusura delle fabbriche e degli impianti minerari nel Tigray. In realtà, a essere in ginocchio è l'intero Paese, il secondo più popoloso dell'Africa, con 115 milioni di abitanti.

Ancor prima dello scoppio del conflitto fra il presidente Abiy e i tigrini, l'Etiopia era alle prese con preoccupanti difficoltà economiche e sociali. «Ora sta implodendo», denuncia la nostra fonte. «Dal punto di vista economico, non solo politico. E la cosiddetta tregua dichiarata da Abiy in realtà è una buffonata» aggiunge l'operatore umanitario. «In effetti le forze federali sono uscite dal Tigray, ma lo hanno circondato e niente entra e niente esce. 156 camion di Medici senza frontiere, World Food Program e Save the Children carichi di aiuti umanitari sono stati bloccati per settimane perché non potevano entrare».

In pratica, un assedio. «Esatto, un assedio. Come ai tempi dei barbari, quando si prendevano le città per fame e per sete». E quando scadrà la «tregua», che cosa succederà? «Il finimondo. Abiy ha usato questi mesi per acquistare i droni. Perché i cosiddetti ribelli, che tali non sono, sul terreno sono imbattibili (hanno preso a legnate i federali e gli eritrei), ma contro i droni possono fare ben poco. Droni che, pur non essendoci più denaro nelle casse dello Stato, Abiy ha comprato in gran quantità».

Nel frattempo, il mondo tace. «Non gliene importa un fico secco» commenta amareggiata la fonte di Panorama. «All'Italia in primis: non ne parla nessuno. Ne parlano molto di più la Bbc o Al Jazeera. Noi italiani invece prima pensavamo al campionato di calcio e adesso siamo tutti al mare». L'operatore umanitario aggiunge: «Lo scriva, per favore. Io mi auguro che, quando quest'etnia sarà sparita, la comunità internazionali non organizzi cerimonie ipocrite, in memoria, come stiamo facendo da 70 anni per gli ebrei. Spero non si faccia una cerimonia postuma ai 6 milioni di tigrini massacrati o scomparsi, mentre noi avevamo da guardare la partita. Mi perdoni, ma sono su tutte le furie: questa gente muore fra le mie braccia…». Ma perché nessuno dice niente? «Ci sono troppi interessi in ballo. Il mercato delle armi fa gola a tutto il mondo. Dove li prende i droni l'Etiopia? Dalla Cina. I carri armati invece arrivano dalla Russia. E avanti di questo passo».

Già, la comunità internazionale... Proprio ieri, nel corso di un raduno clandestino di responsabili comunicazione del Tigray, è emerso un interrogativo: «Come mai il Comitato che assegna il Nobel non si fa sentire? Non sarebbe logico ritirare l'onorificenza assegnata a un criminale colpevole di genocidio? O c'è qualcosa da nascondere?». In realtà, lo scorso novembre gli organizzatori del premio per la pace avevano fatto una dichiarazione tanto dura quanto inedita: «Il comitato norvegese del Nobel segue da vicino gli sviluppi in Etiopia ed è profondamente preoccupato». Alle parole, però, non sono seguiti i fatti.

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