Le violenze in Iran hanno ucciso anche l'accordo sul nucleare

L’accordo sul nucleare è praticamente lettera morta, così come è finita la pace sociale in Iran. È questo il primo bilancio dei dieci giorni che hanno cambiato gli equilibri interni della Repubblica Islamica. Le proteste contro il regime degli ayatollah sono esplose quando la reprimenda della polizia religiosa ha comportato la morte della giovane studentessa Mahsa Amini, rea di non aver indossato correttamente il velo.

Dopo che il suo arresto si è trasformato in tragedia, scontri e rivolte di piazza si sono estese a tutte le 31 province iraniane, creando un precedente pericoloso e una frattura tra il popolo e il regime che si sta rivelando più profonda di quanto non si credesse.

Le più gravi manifestazioni hanno preso vita nel Kurdistan iraniano, la regione da cui proveniva la stessa Mahsa Amini. Che, vale la pena sottolinearlo, era una ventiduenne di etnia curda e di fede sunnita: due elementi che, da soli, basterebbero a spiegare le ragioni per cui la rivolta sociale in questo territorio si vada sommando giorno dopo giorno ad antiche rivendicazioni autonomiste e conflitti con le minoranze della regione a lungo sopiti ma mai davvero risolti.

L’Iran baluardo dello sciismo mondiale è, infatti, in realtà una società multietnica e plurilinguistica, in ragione del suo passato impero e dell’estensione dei suoi confini, che sono al tempo stesso vanto e rompicapo per le molte sfumature, confessionali oltre che territoriali, che convivono al suo interno.

Le tendenze all’autogoverno, alle differenziazioni etniche - e in alcuni casi l’aspirazione a farsi Stato indipendente delle varie anime iraniane - stanno così riemergendo, nella consapevolezza che il fronte degli scontenti si potrebbe saldare intorno a un obiettivo comune: la caduta degli ayatollah e l’instaurazione di uno Stato laico, non più basato su una teocrazia oscurantista, il cui collante sociale va oggi scomparendo in ragione del fatto che l’arma della repressione può interrompere l’ondata di dissenso, ma non ricucire le ferite.

Le violenze nel Kurdistan

Prova ne sia che i manifestanti del Kurdistan hanno bruciato persino i ritratti del generale Qassem Soleimani, storico comandante delle Guardie iraniane della Rivoluzione, la cui figura leggendaria negli ultimi anni aveva avuto sulla folla ancora più presa dello stesso Khomeini, padre della rivoluzione.

Soleimani era uno dei pochi eroi nazionali: l’uomo che più di tutti aveva combattuto i nemici dell’Iran, dagli americani (dai quali è stato poi ucciso in un raid nel 2020) allo Stato Islamico e che, proprio per questo motivo, nei decenni si era guadagnato il rispetto del popolo. Tuttavia, era anche uno degli uomini chiave del regime e dunque il fatto che adesso venga collocato tra i simboli che la gente scesa in piazza intende abbattere, è quanto mai significativo.

Sul banco degli imputati ci sono ovviamente gli eccessi d’intolleranza della «polizia morale», ma è soprattutto la certezza che le sanzioni dell’Occidente rimarranno ad alimentare la rabbia della popolazione. Lo stop agli accordi sul nucleare - concordato nel 2015 tra l’Iran, l’Ue e i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu (Francia, Regno Unito, Cina, Russia e Stati Uniti più la Germania) e poi interrotto dall’arrivo di Trump alla Casa Bianca - fanno temere a buon diritto per la tenuta economica del Paese, già gravato da anni di ristrettezze e crescita piatta.

Motivo per cui il governo di Teheran si vede costretto a correre ai ripari come può: già in queste ore il governo ha tagliato le comunicazioni e internet nel Kurdistan, mentre le strade si sono riempite di agenti segreti (per lo più in incognito). Ufficialmente, negli scontri sono già decedute 41 persone, tra cui anche membri delle forze dell’ordine, ma si teme che il bilancio debba essere aggiornato al rialzo: sarebbero almeno 60, secondo gli osservatori internazionali. E il bollettino è destinato ad aumentare.

L’incubo di scontri armati

Il prolungarsi delle proteste è un inedito per l’Iran, e il regime appare impreparato a gestire un simile scenario. Questo ha fatto scattare il solo piano emergenziale che il governo di Teheran riesca al momento a imbastire: schierare direttamente l’esercito. È stato lo stesso presidente Ebrahim Raisi ad affermare che le proteste si devono «affrontare con decisione», anche se una simile decisione potrebbe rivelarsi assai pericolosa, se portata avanti.

Prova ne sia che a Oshnavieh, città di confine a nordovest di Teheran, nel fine settimana i manifestanti hanno sia pur brevemente preso possesso dei palazzi del potere, costringendo addirittura le forze di sicurezza e i funzionari del governo locale a fuggire: ci sono volute molte ore prima di riuscire a riprenderne il controllo, nella notte di sabato. La folla avrebbe preso d’assalto anche tre avamposti dell’organizzazione Basji, la forza paramilitare associata alle Guardie Rivoluzionarie e diretta emanazione del governo. Il che, se confermato, indica che sono spuntate anche delle armi.

Segno lampante che la situazione è già sfuggita di mano ai governanti. E gli Stati Uniti hanno subito còlto l’occasione per affermare il loro sostegno alle richieste della piazza: con il segretario di Stato Antony Blinken che si è impegnato ad «aiutare a garantire che il popolo iraniano non sia tenuto isolato e all’oscuro»: tradotto, Washington intende assicurare la copertura Internet sull'Iran per contrastare la repressione e la censura, che ovviamente si estende anche sui social network.

Di là dalla solidarietà espressa dai democratici Usa, che lascia il tempo che trova, l’analisi porta a ritenere che la pressione interna da un lato e lo stop alle negoziazioni sul nucleare dall’altro (con la conseguenza di sanzioni durature) prefigurano per la società iraniana un periodo di forte instabilità e la probabilità di nuovi incidenti che, se gestiti in maniera organizzata, potrebbero portare a uno scontro totale con la teocrazia degli ayatollah.

L’assenza dell’alleato russo

Ulteriore elemento su cui riflettere in questa fase così delicata è l’assenza - motivata dalla guerra in Ucraina - della Russia a supporto diretto del regime: Mosca è sempre stata pronta ad aiutare Teheran, fedele alleata e perno di un asse che proietta gli interessi russi sull’intero arco mediorientale. Dallo sviluppo del nucleare a partire dalla metà degli anni Novanta in poi, il Cremlino ha costruito un’alleanza che ha espresso la sua massima partecipazione durante la guerra allo Stato Islamico tra il 2013 e il 2018, quando i russi hanno finanziato e sostenuto militarmente i Pasdaran, ossia il braccio armato e vera leadership iraniana, che tiene in mano anche le redini del potere economico del Paese.

Il tutto per evitare che gli americani estendessero la loro influenza in Asia centrale, specie dopo gli sconquassi nel vicino Iraq; e per impedirgli di destabilizzare anche l’Iran, che si candidava a essere la più grande potenza regionale del Medio Oriente. Se l’elezione nel 2013 del moderato Hassan Rouhani alla presidenza iraniana aveva fatto ben sperare, meno di dieci anni dopo si è al punto più basso della (mancata) rinascita iraniana.

Adesso, la sopravvivenza del modello politico teocratico che Ruhollah Khomeini impose in accordo con le vecchie generazioni, dipende soprattutto da un patto sociale che sappia andare incontro alle richieste delle nuove generazioni. Se questo non avverrà, l’ostinata intransigenza degli ayatollah e del presidente Raisi rischia di trascinare l’Iran in una spirale di violenze dagli esiti imprevedibili.

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