La strage del 12 dicembre 1969. Nel riquadro Roberto Villa (Ansa)

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Piazza Fontana: il racconto di un Vigile del fuoco

Fu il trillo acuto della campana di servizio del Comando provinciale dei Vigili del fuoco di Milano, in via Messina, ad annunciare l’inizio degli anni della strategia della tensione.
Tre suoni brevi, seguiti da altri tre lunghi e poi ancora tre brevi. Era il segnale della terza chiamata quel venerdì 12 dicembre 1969. Come riportato sulla bozza del rapporto d’intervento di quella sera (si veda la foto a pagina 37), la richiesta di soccorso arrivò alle 16.31. Un orario che smentirebbe quello comunemente riconosciuto secondo cui la bomba è esplosa alle 16.37. Stando quindi ai dati riportati dai soccorritori, la strage sarebbe avvenuta quando la Banca nazionale dell’agricoltura era ancora aperta.

Il vigile del fuoco Roberto Villa in quella giornata di lavoro - come in tante altre da un paio d’anni - era l’autista dell’autopompa serbatoio «Aps n.12». Da inizio turno era già uscito per due interventi di routine: in mattinata, zona Greco e, due ore dopo, zona Parco Solari, per un falso allarme.
Dal centralino, il collega Danilo corse subito a portare all’equipaggio di prima uscita il cartellino con i dati del servizio. Questo indicava: «Piazza Fontana al civico 4, presso la sede della Banca nazionale dell’agricoltura».
«Stavolta il motivo della chiamata pareva molto più serio» ricorda Villa cinquant’anni dopo, davanti all’ingresso della banca di Piazza Fontana, sotto la lapide in onore delle vittime. Oggi, 77 anni e un’ottima memoria, ricostruisce con Panorama i tragici momenti vissuti in diretta quel giorno. «Era stato segnalato un crollo all’interno della banca, un’uscita da sirene spiegate, anche se l’operatore della sala radio non aveva specificato la gravità di ciò che era accaduto».
Pochi istanti dopo l’allarme, il vigile del fuoco scendeva lungo le pertiche della caserma con i compagni del suo equipaggio verso il mezzo di soccorso. «C’erano il caposquadra, il brigadiere Luigi Pigni, e altri cinque colleghi e amici: Pierluigi, Pierangelo, Vincenzo, Giuseppe e Romeo». Appena le pesanti porte si chiusero e il faro blu cominciò a lampeggiare, l’autopompa OM 150, targa VF 8779, accelerò e dalla rimessa entrò veloce nel traffico di una giornata non troppo fredda per la stagione, appena velata da una leggera nebbia che a Milano si chiama «scighèra».
Dopo quell’uscita «istantanea», all’altezza del Cimitero Monumentale, la centrale comunicò alla «12» che si trattava probabilmente dello «scoppio di una bombola di gas».
Villa - come la nebbia - è un milanese doc, ancora oggi profondamente innamorato del proprio mestiere. Concluso il servizio di leva nel 1965 e un durissimo addestramento di quattro mesi alla scuola delle Capannelle a Roma, a vent’anni scelse di rimanere nel Corpo contro il parere di suo padre che, spiega l’ex pompiere, «dopo la drammatica esperienza vissuta in guerra non poteva sopportare neanche la vista di una divisa. Compresa quella dei vigili del fuoco».
«Durante il tragitto» dice «nel traffico del venerdì prenatalizio, per pochi secondi sfrecciammo vicino alla casa dov’ero nato, in via San Marco, zona Brera». Fu uno strano presagio. «Ero venuto al mondo proprio lì, il 5 febbraio 1945, sotto le bombe di una delle ultime incursioni aeree alleate sulla città. D’istinto, detti uno sguardo alla mia vecchia abitazione: pensavo all’apprensione che era costretta a vivere mia madre, nel sapermi sempre in mezzo ai pericoli di quel mestiere che avevo voluto fare a ogni costo».
La radio di bordo dell’autopompa all’improvviso riprese a trasmettere. L’autista e il resto dell’equipaggio dovevano prepararsi. Il canale dei vigili restituiva le voci dei colleghi dell’ambulanza partita dal distaccamento di via Ansperto, che era appena arrivata in Piazza Fontana. Quelle voci erano alterate, disperate. «Comprendemmo allora che doveva trattarsi di una carneficina» dice Villa. Confuse nella trasmissione radio si sentivano anche imprecazioni. Ma l’appello era chiaro: «Mandate tante ambulanze, qui è un macello, ci sono morti e feriti, tanti feriti».
Dopo quelle parole, passando lungo i bastioni di Porta Venezia, l’equipaggio della «12» non parlava più. Verso San Babila, a poche centinaia di metri dalla destinazione, il traffico era più lento, congestionato fino a bloccarsi del tutto. «L’autopompa si faceva largo a stento tra i veicoli ormai fermi, e così decisi di imboccare in contromano corso Europa».



Erano le 16.50 quando il pesante mezzo entrò in una Piazza Fontana piena di auto e di curiosi. Villa si fermò di fronte all’ingresso dell’istituto, dove oggi si trova il lungo mezzanino dei tram - vicino all’ambulanza dei colleghi che prima, via radio, urlavano di arrivare al più presto. L’equipaggio scese dal veicolo di corsa, mentre la luce del giorno si era quasi spenta e i lampioni già brillavano nella foschia della sera.
Il pompiere prosegue: «Nel frattempo erano in arrivo anche altri mezzi di soccorso, che si fermavano per poi ripartire subito con i feriti: le ambulanze di tutte le “croci” di Milano (le varie associazioni di pubblica assistenza, ndr) ma anche tante auto private e taxi di passaggio, perché in quegli anni tutto il centro non era una zona a traffico limitato come oggi. Non ricordo invece auto della polizia o dei carabinieri. E, in quei primi momenti, non era stata organizzata nemmeno una barriera per separare la folla dai soccorritori che dovevano entrare in quella specie di porta per l’inferno».
Villa non ebbe comunque molto tempo per pensare. Il primo «flash» della strage rimastogli nella memoria è: «Un uomo stava seduto sul marciapiede accanto all’ingresso della banca, chiedendo aiuto con un filo di voce e qualcuno gli appoggiava una mano sulla spalla. Era seminudo, e continuava a guardarsi le gambe». O, meglio, quel che ne restava. «Perché la sinistra era troncata all’altezza della coscia». La scena, cruda, impietosa - anche per uno come Villa abituato ad avere a che fare con sangue e morte - durò pochi secondi. Poi alcuni colleghi portarono via il ferito con una barella.
«Da quel momento in poi, la percezione del tempo per noi fu come alterata». L’orologio segnava le 16.55, quando assieme ai compagni di squadra stava per entrare nella banca. Persone in abiti civili andavano e venivano; molte di loro ne trascinavano fuori altre con i vestiti a brandelli, i volti che erano in maschere di sangue. Dentro le ambulanze di fronte alla banca e sulle barelle posate su quel marciapiedi ingombro di vetri in frantumi, il pompiere vedeva caricare quante più persone possibile; «anche cinque o sei per ciascun mezzo», prima che ripartissero a sirene spiegate verso gli ospedali.
Ciò che oggi, invece, ricorda con più difficoltà sono i volti incrociati in quei minuti: «Le persone erano come ombre che si muovevano nel passaggio maledetto che portava nell’istituto». Ma, a cinquant’anni di distanza ha ancora chiara in mente quella condizione per cui, all’improvviso, i suoi sensi furono come ovattati, con una caratteristica reazione all’estremo stress psicofisico.
Appena oltre il portone d’ingresso, senza quasi rendersene conto, Villa scivolò a terra, di schiena. «Mentre cadevo, vedevo il soffitto del corridoio d’accesso ancora pieno del fumo nero dell’esplosione. L’aria era impregnata di un fortissimo odore d’incendio, che si mescolava a quello, nauseabondo e inconfondibile di carne bruciata». Gli anfibi di cuoio, allora in dotazione ai vigili del fuoco, lo avevano tradito; era inciampato su una delle tante lastre di vetro scagliate a terra dalla deflagrazione. In quei primissimi minuti, ben prima che i proiettori potessero essere piazzati per illuminare l’area dello scoppio, i pompieri e il personale sanitario operavano praticamente al buio. «Era facilissimo inciampare e scivolare in quel disastro» prosegue. «Il pavimento era ingombro di detriti, si spandeva ancora fumo e, soprattutto, c’erano persone terrorizzate che correvano verso l’uscita».
Rimessosi in piedi, Villa si guardò le mani. «I palmi erano scuri e mi sembrò sangue. Ancora non mi ero infilato i guanti e mi maledissi per quella leggerezza. Mi ero fatto male proprio quando c’era più bisogno di me. Subito, però, mi resi conto di non essermi affatto ferito e il sangue che avevo sulle mani non era il mio. Mista a vetri e frammenti di parete, sul pavimento del corridoio, si era formata questa larga pozza rossa...». Dentro l’atrio devastato dallo scoppio di pochi minuti prima, dice ancora, «si sentivano grida strazianti, pianti, imprecazioni, gemiti, rantoli delle persone ancora bloccate dentro».

Roberto villa con l'Autopompa 12 (courtesy Roberto Villa)



La bozza con i servizi del 12 dicembre 1969 (courtesy Roberto Villa)





Dal corridoio era appena passato, sorretto dai soccorritori, anche quello che è il più giovane tra i feriti della strage. Enrico Pizzamiglio, 12 anni, si era trovato nel salone della banca con la sorella maggiore Patrizia proprio quel venerdì. I genitori li avevano mandati a pagare una cambiale. Portarono via il ragazzo con la gamba sinistra maciullata, mentre Patrizia agonizzava coperta di ustioni su tutto il corpo.
La storia che racconta oggi Villa si intreccia - lungo una linea temporale di alcuni minuti - con le testimonianze drammatiche di chi venne coinvolto dallo scoppio. Per esempio quella di don Corrado Fioravanti, parroco di Cinisello Balsamo, nord di Milano, riportata dai quotidiani del giorno successivo. Al momento dell’attentato entrava nella banca con un amico, Vittore Locatelli, per depositare i ricavi della fabbrica di aceto della comunità che aveva fondato. Stavano aprendo il portone d’ingresso quando lo spostamento d’aria provocato dalla bomba li fece letteralmente volare di nuovo all’esterno, in una pioggia di schegge di vetro che per fortuna li ferì in modo lieve. Ancora storditi, furono tra i primi a entrare nell’istituto per prestare soccorso e quasi si scontrarono con due persone rese irriconoscibili dalle ferite che, barcollanti e completamente coperte di sangue, si accasciarono per terra dopo qualche secondo. Quasi a tentoni per il fumo, il prete e il suo conoscente arrivarono nel salone dov’era appena avvenuta l’esplosione.
La grande stanza degli scambi era piena di feriti: chi riusciva a camminare - perché ancora aveva le gambe - si aggirava allucinato, gridando e piangendo. Ma lì, sul pavimento, c’erano le situazioni più gravi. Soprattutto persone dilaniate negli arti inferiori: la bomba era stata piazzata sotto a un tavolo. Don Fioravanti si prodigava in mezzo alle vittime, molti si trascinavano per terra, tra i focolai seguiti all’esplosione che continuavano a bruciare. Così, non poté far altro che impartire l’assoluzione a Giulio China, un agricoltore di 57 anni. Senza più le gambe, in pochi secondi morì tra le braccia del sacerdote, dopo aver ripetuto con un fil di voce: «Sono di Novara, avvisate i miei».
Nel salone era arrivato anche il sottufficiale di polizia Michele Priore, sceso di corsa dall’autobus della linea «N» che al momento dell’attentato attraversava Piazza Fontana. Anche lui cercava di aiutare i feriti, in modo frenetico, lottando per non svenire di fronte alla scena a cui stava assistendo.
Intanto, all’esterno, il vigile urbano Menghini fermava le auto private perché caricassero i feriti in aiuto alle ambulanze che i suoi colleghi, i «ghisa» del 77.33 (il numero di emergenza antenato del 118) stavano chiamando in gran numero dal comando di Piazza Beccaria. Quest’ultimo, ancora oggi, si trova nella stessa sede e dista appena 150 metri dal luogo della strage.



Villa prosegue il suo racconto: «Entrai nella sala degli scambi dove, fino a pochi minuti prima, si teneva l’affollatissimo mercato degli agricoltori del venerdì. Vidi subito alcuni cadaveri ridotti a masse senza forma, in posizioni innaturali contro le pareti. E poi c’erano tanti feriti che si lamentavano, urlando, quasi tutti concentrati nella zona centrale dov’era stata lasciata la bomba».
Pur scioccato, il pompiere si doveva concentrare sugli ordini che il suo superiore, il brigadiere Luigi Pigni, continuava a impartire a squarciagola. «In quel girone dantesco sembrava di non riuscire a gestire la situazione». C’erano troppe vittime alle quali prestare soccorso, tra resti umani, in un ambiente reso pericoloso dagli effetti dell’ordigno. «Credo che una situazione così l’avessero vissuta i miei colleghi più anziani, durante gli interventi dopo i bombardamenti della guerra».
Davanti allo scempio, ogni soccorritore reagiva in modo diverso: «Un pompiere di un’altra squadra, un bresciano, si aggirava per la sala come un automa, senza alcuna apparente emozione. Lo osservavo mentre raccoglieva membra umane e cercava di ricomporre i morti. Altri miei compagni, chiaramente sotto shock, avevano il volto segnato dal dolore».
Dopo un quarto d’ora in quell’inferno, Villa non ce la faceva più. Uscì dall’edificio. «Le mani mi tremavano per la tensione e sentivo un caldo insopportabile dentro la divisa invernale».
Mentre tornava verso la banca, vide una folla si era assiepata dietro al cordone organizzato nel frattempo dai carabinieri. «Con uno dei militari ci chiedevamo quale potesse essere la causa dello scoppio: non era l’effetto di una bombola del gas». Il buco in mezzo al pavimento confermava piuttosto un ordigno potente. Intanto, dal bar vicino arrivarono acqua e generi di conforto per i soccorritori. Ma Villa ricorda come «nulla fosse in grado di calmare la sete, che mi spaccava le labbra e che mi portai dentro per tutto l’intervento».
Il pompiere entrava e usciva dal salone. A un certo punto, il caposquadra gli gridò in dialetto: «Ohé Villa! Damm ona man che vàrdom chi de drée!», «Ehi, Villa! Dammi una mano che guardiamo qui dietro!». Il brigadiere indicava quel che restava del grande tavolo centrale per le contrattazioni. La deflagrazione l’aveva schiantato contro il perimetro degli sportelli, lasciando in vista il cratere circolare dov’era stata lasciata la bomba. I due vigili del fuoco cominciarono a spostare con fatica i frammenti di legno massiccio. «Scoprimmo con orrore quel che rimaneva di una persona, quasi polverizzata dallo scoppio». Quei poveri resti furono coperti con un telo.
Un’altra immagine si è fissata nella memoria di Villa: «Al di là del cordone di sicurezza c’erano questi due giovani che ridevano sguaiati. Persi la ragione. Mi avvicinai come una furia, prendendoli a male parole e urlai a un carabiniere di allontanarli se non voleva che andasse a finire peggio».

Il pompiere rientrò nella banca per un’ultima volta. Sotto teli e coperte macchiate di rosso scuro si riconoscevano le sagome di alcuni cadaveri. I feriti, invece, erano arrivati tutti in ospedale. Tra quelli più gravi, 14 erano stati portati al «Policlinico», dove l’équipe diretta dal padre della chirurgia d’urgenza Vittorio Staudacher fu costretto ad amputare la gamba sinistra al piccolo Enrico Pizzamiglio. Altri 16 ne arrivarono al «Fatebenefratelli», mentre sette al «Niguarda» (qui, al reparto grandi ustionati, si trovava Patrizia, la sorella di Enrico).
Sul pavimento della banca si contarono 13 cadaveri. Già il giorno dopo il bilancio salì a 14 morti. Al «Fatebenefratelli», nelle prime ore del mattino, si spense infatti Gerolamo Papetti, agricoltore di Rho di 78 anni, la vittima più anziana della strage.
Finalmente, poco prima delle 18, Villa uscì l’ultima volta dal portone della banca. «C’era un mio compagno di squadra appoggiato all’autopompa, come a cercare conforto in quella presenza familiare. Piangeva: allora mi avvicinai e cercai di consolarlo ». Pochi minuti e arrivò anche il brigadiere Pigni: la scena dell’attentato ormai era «in sicurezza». Sul foglio di servizio il caposquadra appuntò l’ora di fine intervento: le 18.06. Era durato circa un’ora e mezza, ma per Villa e i suoi compagni potevano essere stati «pochi minuti come lunghissime ore». L’equipaggio in silenzio si sistemò sui sedili della «12», che stavolta senza lampeggianti né sirena si allontanò facendosi spazio tra i curiosi.
Ma non era finita. Ancora la radio di bordo: «Segnalava un secondo allarme bomba a poca distanza da noi» ricorda Villa. «Via Case Rotte, angolo Piazza della Scala, presso la sede della Banca commerciale» scandivano dalla Centrale dei vigili. «Ci guardammo sconcertati all’idea di un altro incubo come quello che avevamo appena vissuto. Un altro massacro no...». Alla fine, la Centrale inviò un’altra squadra a controllare quel secondo ordigno, per fortuna inesploso. Inspiegabilmente, però, fu fatto brillare dagli artificieri la stessa sera, con la perdita di importanti elementi d’indagine.

«Tornando in caserma, ho guidato come in trance, finché con i miei compagni ci siamo ritrovati nel grande cortile di via Messina», rammenta Villa. Qui vennero a sapere che, mentre loro erano in Piazza Fontana, l’autovettura-comando che doveva raggiungerli era rimasta coinvolta in un gravissimo incidente, causando un morto. Un’altra vittima, anche se indiretta, della strage. Aggiunge il pompiere: «Avevamo l’orrore negli occhi. Dopo quella sera, non ho più mangiato carne per molto tempo».
Alle 20.04 squillò ancora l’allarme: bisognava dare aiuto ai colleghi del distaccamento di via Sardegna per l’incendio di un tetto in zona Giambellino. La squadra non fece in tempo a rientrare dalla quarta chiamata della giornata che, alle 21.41, la radio li indirizzò in via Londonio per un intervento analogo: bruciava il tetto di un palazzo, a causa di una canna fumaria difettosa.
Per Villa e l’equipaggio della «12», quel 12 dicembre 1969 di servizio terminò alle 22.30. Per il Paese invece era cominciata «la notte della Repubblica».

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