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Tutta la scissione, minuto per minuto

Litigi, divisioni e dimostrazioni di fedeltà a Silvio Berlusconi: le ultime ore del Popolo della libertà come sono state vissute dai protagonisti che hanno seguito in prima persona l’andamento delle febbrili trattative per evitare la spaccatura.

La data d’inizio della fine del Pdl e della nascita di Forza Italia e del Nuovo centrodestra è il 25 settembre 2013. È il giorno in cui, su proposta di Renato Brunetta, il gruppo dirigente del Pdl decise di annunciare le dimissioni in blocco di tutti i parlamentari, da consegnare nelle mani dei rispettivi capigruppo, da formalizzare ai presidenti di Camera e Senato, non appena la giunta per le elezioni di Palazzo Madama avesse decretato la decadenza di Silvio Berlusconi. Qui comincia e qui finisce la compattezza del Pdl. Perché due terzi dei parlamentari sono disposti ad andare fino in fondo. Mentre i governativi, pur dicendo di essere con il presidente, lavorano sotto traccia, usando ogni mezzo di persuasione verso Berlusconi per evitare il redde rationem.

È un film che viene girato spesso: con le dimissioni dei parlamentari, con quelle dei ministri, con la fiducia, con l’inaugurazione della sede di Forza Italia, con l’ufficio di presidenza. E stava per accadere alla vigilia del consiglio nazionale. Così è avvenuto nei tre giorni che hanno messo in soffitta il Pdl, ripreso dai cassetti il simbolo e il nome di Forza Italia, salutato la partenza dei governativi per nuovi gruppi parlamentari e un nuovo partito. Tre giorni vissuti all’insegna di quelle che Denis Verdini ha chiamato montagne russe, cercando di preparare tutti i protagonisti al fatto che ogni decisione sarebbe stata presa all’ultimo momento, con ripidi saliscendi e cambi d’umore da parte di Berlusconi, comprensibilmente preoccupato di non far esplodere il centrodestra e mantenere l’unità del partito. Tre giorni che hanno avuto il loro epilogo venerdì 15 novembre.

Nella tarda serata di giovedì, Raffaele Fitto aveva incontrato Berlusconi e al commiato erano rimasti d’accordo su un comunicato del presidente che invitasse tutti i componenti del consiglio nazionale a partecipare, con ciò smentendo nei fatti le voci di un suo slittamento o peggio un annullamento, molto pubblicizzato dai giornali che smaccatamente vogliono la fine del Cavaliere. Fino alle 13 di venerdì la rotta è dunque tracciata e i lealisti girano con il sorriso sulle labbra. Berlusconi va avanti. Va avanti al punto da diramare una dichiarazione che in sostanza invita tutti a smetterla con le liti, conferma il consiglio nazionale, chiede la più ampia partecipazione e, in definitiva, pronuncia fra le righe un «ci penso io» che esclude modifiche al documento approvato dall’ufficio di presidenza (torna Forza Italia, cariche azzerate, inaccettabile la decadenza) e quindi rispedisce al mittente le richieste dei governativi.

Fitto legge e rilegge il documento, però alla fine è soddisfatto, molto soddisfatto. «Va addirittura oltre quello che gli avevo scritto io». Ci s’interroga sull’autore del comunicato ufficiale. «Sandro Bondi», è la sentenza di più di un partecipante alla riunione. Ma, quando Angelino Alfano varca il portone di Palazzo Grazioli accompagnato da Maurizio Lupi, il gelo cala sui lealisti. «Ora Angelino riproporrà la mozione degli affetti. E si ricomincerà daccapo» sibilano preoccupati. Dopo un po’ arrivano gli altri ministri. Presso la nuova sede di San Lorenzo in Lucina, la stanza di Verdini si riempie di gente, fino a toccare le 30 persone. Lui fuma tranquillo, circondato da scene di nervosismo. La voce gira sempre più insistentemente: il quadro è cambiato di nuovo. Berlusconi ha ceduto all’ex delfino diversamente berlusconiano. Si farà un ufficio di presidenza alle 21 per modificare il documento, escludere a priori la crisi di governo e prevedere non due ma tre coordinatori, per tener conto delle proporzioni numeriche all’interno del partito, con i lealisti che possono contare almeno sul 70 per cento delle adesioni.

Verdini viene chiamato al telefono nella stanza attigua. Cala il silenzio: da Mariastella Gelmini a Francesco Saverio Romano, da Mara Carfagna a Daniele Capezzone, da Fitto a Renata Polverini, da Stefania Prestigiacomo a Gianfranco Rotondi, tutti attendono con il fiato sospeso. Rientra Verdini. «Berlusconi vuole fare l’ufficio di presidenza» annuncia. Dal silenzio si passa alla confusione più totale. Lui allarga le braccia per riportare la calma e prosegue: «Gli ho spiegato che prima di fare qualsiasi cosa, almeno per correttezza, deve parlare con Fitto». Neanche il tempo di terminare e squilla il cellulare del plenipotenziario pugliese che era con gli altri nella stanza. Fitto ascolta, scuote la testa. Non sa, forse lo sospetta, di essere in vivavoce. Dall’altra parte Berlusconi ascolta in compagnia di Gianni Letta, Gaetano Quagliariello e Nunzia De Girolamo. Lupi e Alfano sono già andati via trionfanti, lasciando agli altri l’incombenza di correggere il documento che già danno per approvato a un ufficio di presidenza che già considerano convocato.

Nessuno si aspetta il crescendo rossiniano di Fitto. Berlusconi spiega che, anche se decade, non si possono voltare le spalle al governo, «anche perché non abbiamo i numeri». Il deputato pugliese si gonfia, si gonfia sempre più. Alla fine esplode e comincia a urlare: «Presidente, sei impazzito, sei impazzito? Questi ti stanno ammazzando, ti stanno accompagnando all’uscita, fra un mese non ti risponderanno più neanche al telefono. È possibile che dai fiducia e riconoscimenti a chi ti sta tradendo, e l’hai già fatto il 2 ottobre, mentre umili chi ti sta difendendo? Sappi che io questo non te lo permetterò, ma nel tuo interesse, e impedirò che tu possa suicidarti con le tue stesse mani. Capitoooooo?». Berlusconi prova a controbattere contro questo fiume in piena, ma è impossibile, alla fine riesce a dire: «Va bene, vediamoci alle 19.30 e vediamo cosa fare». Chiude la comunicazione. Fitto getta il telefonino sul tavolo: «Con la storia dei sentimenti quelli lo vogliono portare sul patibolo».

A Palazzo Grazioli l’atmosfera è molto simile. I ministri rimasti, stupiti dal fervore della telefonata e dalle urla di Fitto, invitano Berlusconi a non mollare. Il giro di telefonate continua. Berlusconi chiama Verdini, che si allontana per rispondere, e gli dice che Quagliariello sta predisponendo il documento dell’ufficio di presidenza. «Puoi verificare quanti sarebbero i partecipanti?». «Certo, presidente, subito» risponde il coordinatore.

Nel frattempo, nella stanza attigua arriva Renato Brunetta. I presenti lo informano di quanto sta succedendo. «Adesso lo chiamo io» annuncia battagliero.

Berlusconi lo informa subito della convocazione dell’ufficio di presidenza e la reazione del capogruppo è simile a quella di Fitto. Brunetta non urla, ma usa un tono secco, duro, deciso: «Io all’ufficio di presidenza non vengo per precisa scelta politica e con me non verrà nessuno dei deputati che rappresento. Fino a prova contraria tu mi hai messo a fare il capogruppo e rappresento il 75 per cento dei deputati. Come tale t’informo che l’unica sede che accettiamo è quella del consiglio nazionale convocato per domani. Se qualcuno dei governativi vuole discutere modifiche al documento già approvato, lo faccia domani e accetti il confronto con il rischio di finire in minoranza. Quindi l’ufficio di presidenza non si fa, è una trappola». Silenzio dall’altro capo del telefono. «Va bene» risponde poi Berlusconi «l’ufficio di presidenza non si fa».

Nel frattempo, mentre il capogruppo è al telefono con il presidente del partito, Verdini contatta i componenti dell’ufficio di presidenza per conoscere l’eventuale loro disponibilità. I presenti nella stanza dicono tutti no. Roberto Formigoni, Maurizio Sacconi e Ugo Cappellacci danno la loro disponibilità. Elio Vito è impegnato, «ma se serve vengo». Giancarlo Galan è in Antartide, ma annuncia il suo no politico. Lo stesso fa Bondi. A questo punto Verdini chiama Berlusconi per informarlo. Il presidente non può che prendere atto della decisione della maggioranza e gli chiede di parlare con Fitto per annullare l’incontro delle 19.30, ormai superfluo.

Fitto non si trova. A Palazzo Grazioli, intanto, Niccolò Ghedini incontra Berlusconi, mentre i governativi aspettano la decisione del presidente. Le agenzie battono la notizia che non ci sarà alcun ufficio di presidenza. Berlusconi chiama Quagliariello, lo informa della situazione e gli dice di aver trovato una soluzione di compromesso in grado di accontentare tutti: la sfiducia al governo in caso di decadenza non sarà automatica, ma dovrà essere decisa da un nuovo ufficio di presidenza e da un nuovo consiglio nazionale. Quanto all’assetto del partito, sarà individuato un organismo di garanzia della reale rappresentatività delle varie anime del Pdl. Quagliariello, a nome dei governativi, rifiuta: vogliono la durata del governo a prescindere e incarichi nel partito stabiliti nero su bianco. Gli alfaniani convocano la riunione che decreterà la nascita dei gruppi autonomi. La rottura si consuma, la scissione (il tradimento per tre quarti del partito) è cosa fatta.

Intanto Fitto si trova. Ha appena bussato a via del Plebiscito. Entrando, incontra De Girolamo che esce. «Ecco il rompipalle» sibila la ministra. Fitto non nega: «Sì, romperò le palle, fino a quando tu e i tuoi amici cercherete di liberarvi di Berlusconi». Lei se ne va stizzita. Lui entra da Berlusconi, lo abbraccia e gli chiede scusa per modi e toni del suo sfogo. Berlusconi sorride e chiude l’incidente. Restituisce l’abbraccio. È triste e soddisfatto al tempo stesso. Ha potuto toccare con mano una prova di fedeltà da parte di tre quarti del partito, che ha lottato con le unghie e con i denti per difenderlo, per difendere il suo leader dall’attacco politico-giudiziario, dai tradimenti, da quello che chiama «il suo omicidio politico». Ha sentito il partito vicino come mai. È triste, però, e il perché è lui stesso a dirlo: «Io, che ho tenuto i moderati insieme per vent’anni, non sono riuscito a mantenere unito il mio partito». Ma per i matrimoni bisogna essere in due e accettando la corte del governo gli «innovatori» avevano da tempo deciso il divorzio. Alcuni già da novembre scorso. Quando, al Teatro Olimpico, andò in scena l’illusione di un nuovo partito senza Berlusconi. Un’illusione, appunto.

P.s. Consiglio non richiesto ma disinteressato ad Alfano: non si coccoli con i sondaggi. I numeri che vengono accreditati al suo Nuovo centrodestra oscillano tra il 7 e oltre il 10 per cento. Basta riguardare i consensi con i quali gli istituti demoscopici avevano salutato la decisione di Gianfranco Fini e Mario Monti al momento della formazione dei loro partiti: il primo viaggiava stabilmente intorno al 10 per cento, l’altro veleggiava verso il 15. Alle elezioni Fini conquistò lo 0,47 dei voti, Monti l’8,3. In entrambi i casi l’unica che ci azzeccò fu, per l’ennesima volta, l’Euromedia research di Alessandra Ghisleri. Che oggi consegna ad Angelino una forchetta di consensi tra il 3 e il 5 per cento. Leader avvisato.

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