Paura della matematica (e della vita normale): la scomparsa perfetta di Majorana

Di solito andava così: Enrico Fermi col regolo calcolatore, in piedi alla lavagna o seduto al tavolo, piegato su un foglio; Ettore Majorana a mente, voltandogli le spalle: «quando Fermi diceva sono pronto, Majorana dava il risultato».

Portò uno strano scompiglio, nell’Istituto di Fisica di via Panisperna, l’arrivo di questo giovane «saraceno» taciturno e angoloso, le guance scavate in una concentrazione fissata sempre su un qualche punto laterale o esterno. Con la sua apparente immobilità, inappartenente all’ambiente e “ai suoi” (colleghi, familiari, studiosi), era difficile da comprendere e gestire. Sciascia scrisse che l’origine della sua stranezza (misto di estraneità e auto-esclusione) era da ricercarsi in una specie di «precocità rimossa», la stessa che afflisse Stendhal: il voler procrastinare l’esplosione del proprio genio, per differire la morte.

Nella ricerca teorica, questa rimozione si traduce nella paura di giungere a un risultato, cioè in definitiva alla verità: «Nel genio precoce (…) la vita ha come una invalicabile misura: di tempo, di opera. Una misura come assegnata, come imprescrittibile. Appena toccata, nell’opera, una compiutezza, una perfezione; appena svelato compiutamente un segreto, appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero – nell’ordine della conoscenza o, per dirla approssimativamente, della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte – appena dopo è la morte», o, che è lo stesso, la scomparsa, la dissoluzione.


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