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Ora l'Unione Europea apra le porte alla Turchia

È arrivato il momento di dirci che la vittoria di un leader forte in un Paese vicino e strategicamente cruciale come la Turchia è una buona notizia per l’Europa. Recep Tayyip Erdogan ha stravinto per la stessa ragione per la quale dovremmo gioire del suo successo: la borghesia turca ha visto in lui un baluardo di stabilità, una garanzia rispetto all’avventura di una sconfitta del partito di governo.

La Turchia sceglie ancora Erdogan

Perché la Turchia ha premiato l'AKP di Erdogan


All’opposizione c’erano essenzialmente tre partiti incompatibili tra loro: un partito laico che ha dimostrato in passato, nelle sue diverse incarnazioni, di dibattersi in spirali di corruzione e incapacità; un partito nazionalista per sua natura estremista e quindi poco affidabile; e un partito di sinistra curdo portavoce di istanze secessioniste e centripete.

La debole alternativa

Insomma, l’alternativa a Erdogan era un Frankenstein tricefalo non in grado di governare la Turchia, inevitabilmente votata a una stagione di disordini di piazza e caos politico. Esattamente ciò di cui la comunità internazionale, e l’Europa in particolare, non avevano bisogno adesso.

Il voto turco

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Sostenitori dell'AK Party festeggiano davanti alla sede del partito ad Ankara - 1 Novembre 2015

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Un sostenitore del partito Repubblicano turco mostra tutta la sua delusione e il suo spavento dopo i primi exit poll che segnano la vittoria di Erdogan alle elezioni politiche - Ankara, 1 Novembre 2015

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Sostenitori dell'AK Party festeggiano davanti alla sede del partito ad Ankara - 1 Novembre 2015

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Diyarbakir. Nella città curda scontri e proteste contro la vittoria di Erdogan alle elezioni politiche

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Festeggiamenti da parte dei sostenitori dell'AK Party ad Ankara - 1 novembre 2015

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Sostenitori dell'AK Party festeggiano davanti alla sede del partito ad Ankara - 1 Novembre 2015

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Istanbul. Il presidente turco Erdogan possa per un selfie con un gruppo di sostenitrici del suo partito (AKP)

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Istanbul. La gigantografia del presidente Recep Tayyip Erdogan che ha vinto le elezioni del 1 novembre

Basti pensare a un piccolo dettaglio: la Turchia ospita 2 milioni di siriani e 300mila iracheni, profughi nel suo territorio. Un flusso che Ankara ha assorbito senza colpo ferire, con coraggio e notevoli spese, ritenendo che fosse nel suo interesse ma comunque dimostrando di essere un grande Paese. Quanti altri Stati sarebbero stati in grado di accogliere oltre 2 milioni di disperati bisognosi di tutto? Ankara lo ha fatto.

È vero, la politica estera di Erdogan è stata per molti versi ambigua. Di appoggio al governo islamista di Tripoli contro quello di Tobruk oggi riconosciuto dal grosso della comunità internazionale (ma non è lo stesso governo di Tobruk che ha denunciano lo sconfinamento delle nostre navi militari in acque libiche e che non perde occasione per lanciare moniti all’Italia?).

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È vero, molti foreign fighters sono passati in Siria attraverso il confine turco, qualcuno dice perché le autorità turche hanno chiuso un occhio. Ed è ugualmente vero che Erdogan ha fatto deteriorare i rapporti con Israele che costituivano un asse di stabilità e sicurezza in tutta l’area.

Eppure, la Turchia partecipa alla coalizione internazionale contro l’Isis, fa partire gli aerei americani dalle proprie basi per i raid contro le bande nere di al-Baghdadi e co-presiede il Comitato della coalizione internazionale per i foreign fighters, a riprova della volontà di metter fine ad ambiguità del recente passato.

È stupefacente che in occasione dell’ultimo attentato terroristico a Ankara (due kamikaze per 102 morti) gli inquirenti abbiano indicato i responsabili in un gruppo terroristico legato all’Isis, eppure una parte della pubblica opinione abbia alimentato un sospetto di “strategia della tensione” messa in campo proprio da Erdogan. Un po’ come quando in Italia si diceva, nei Tg, che gli attentati erano “di chiara matrice fascista”.

Erdogan non è un estremista, anche se la moglie è velata. E la borghesia turca, erede del kemalismo laico, vede in lui un pilastro di stabilità, non un pericoloso leader islamista amico dei jihadisti.

La strategia europea fallimentare

Se guardiamo al panorama delle primavere arabe, ci accorgiamo che la strategia europea e occidentale ha fallito. A guidarci nel mondo non può essere un idealismo scollegato dalla realtà, e perfino una filosofia etica e politica basata sul pragmatismo deve insegnarci che il meglio è nemico del bene.

Che in Egitto Al Sisi è di gran lunga preferibile ai Fratelli musulmani, anche se non è propriamente un campione della democrazia. E che c’è da rimpiangere il fattore di ordine, stabilità e in definitiva pace (sì, pace) rappresentato da dittatori quali erano Gheddafi e Mubarak.

Allora benvenuto il voto in Turchia, tanto più che si tratta dell’espressione della libera volontà di un popolo che non merita le nostre pelose alzate di sopracciglio. Adesso la Turchia affronta quattro anni nei quali non sono previste elezioni, né politiche né locali.

È il momento di ricostruire con Ankara (e Erdogan) eccellenti rapporti di vicinato nel comune interesse. La sua mancata vittoria il 7 giugno aveva prodotto una fase di instabilità e attentati, quasi che Erdogan avesse voluto dire al suo popolo: senza di me è questo che vi aspetta. Adesso, tocca a lui dare la prova di essere un vero capo (di Stato).

E l’Europa, piuttosto, pensi a tutte le occasioni perse in passato, quando la Turchia laica chiedeva di entrare nell’Unione europea e partecipare a un percorso condiviso. Quella porta oggi va riaperta.

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