Storia di alberi
Carlo Mattioli, Paesaggio, 1980 © Archivio Carlo Mattioli
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Matteo Melchiorre, 'Storia di alberi e della loro terra' - La recensione

Un olmo muore privando Tomo, piccolo borgo rurale presso Feltre, del suo totem centenario. Requiem per un albero cantò anni fa Matteo Melchiorre, incuriosito dal pellegrinaggio dei conterranei a quel tronco spezzato dal fulmine. Il libro inaugurò un culto arboreo postmoderno sotto il nume poetico di Andrea Zanzotto e della sua Quercia sradicata dal vento, "la vetta cui corre / l'occhio e il tempo al riposo". Poi la vita ha ripreso a scorrere ma l'Alberón ha custodito con cura i misteri che ora, nell'occasione di un tormentato trasloco, vengono a galla nella Storia di alberi e della loro terra

L'albero che ci appartiene

L'olmo e il sambuco, il frassino e il pioppo, l'ippocastano e il tiglio. E sotto la corteccia, pastori e botanici, tosaerbe e pendolari, casalinghe e bevitori, falegnami e sognatori, materialisti e animisti, gente di montagna e gente di città, perfino il popolo delle seconde case. Perché "noi tutti abbiamo un albero che ci appartiene, metaforicamente parlando". Alberi e persone, siamo esseri viventi perennemente contesi fra la terra (le radici; i piedi) e il cielo (i rami, la chioma; il cervello, l'anima): di questo parlano le storie di Matteo Melchiorre. Di verità e dubbio come parte dello stesso miraggio.

Ma anche della scenografia di un'età passata da conservare prima che evapori la memoria collettiva, di luoghi marginali fotografati prima del loro abbandono al degrado. Tomo è uno di quei "paesi che vanno a ramengo". La mutazione epocale del sistema socio-economico alpino è simile a quella di tanti altri borghi in Italia. I contadini che diventano operai e poi sono costretti a cercare lavoro altrove -i più fortunati hanno una casa da affittare - le stalle che diventano garage e poi taverne con caminetto, i pascoli restituiti al bosco. La piccola storia sociale degli alberi dispregia la retorica del rural chic: i miei alberi, dice l'autore, erano pieni di resina e di tannino, "non lasciavano tempo per gli aperitivi".

(per fare un libro) Ci vuole un albero

Radicare o sradicarsi diviene così il dilemma fondativo, come nel verso di Hölderlin: "E amico un luogo fra i monti mi tien prigioniero". Tra il presente (mettere radici) e il futuro (sradicarsi) Melchiorre non sceglie. Così questo libro è nello stesso tempo la confessione di una impasse e l'affermazione di un orizzonte civile-esistenziale. Un orizzonte condiviso con quella manciata di scrittori che si sottraggono alla deriva materiale contemporanea, sul crinale incerto tra geografia e metafisica. Come Franco Arminio, fine tessitore di radici che nelle sue poesie d'amore e di terra ha dato un suggerimento chiarissimo: Cedi la strada agli alberi.

"Un albero è la macchina che madre natura ha progettato per superare i limiti e i secoli che gli altri ospiti del pianeta non possono varcare", scrive a proposito de I giganti silenziosiTiziano Fratus, cercatore d'alberi e studioso di dendrosofia (la filosofia degli alberi). Alla loro maniera, silenziosamente, quei giganti si stanno costruendo qualcosa che prima non c'era: un bosco all'interno della wilderness editoriale. La vita segreta degli alberi oggi non si riferisce solo alla comunità sociale raccontata da Peter Wohlleben nell'omonimo bestseller, ma all'onda bibliografica mite e travolgente che dona loro l'eternità sotto forma di cellulosa: libri!

Certo non sarà un caso se quest'anno nell'elenco dei world changers stilato dal New Yorker, dopo Papa Francesco viene lo scienziato che ha inventato la neurobiologia vegetale: Stefano Mancuso, brillante teorico di una Plant Revolution che ci riguarda da molto vicino. All'intelligenza "distribuita" delle piante, flessibile, adattabile, organica, all'efficienza della sua organizzazione vitale decentrata potrebbe infatti ispirarsi l'umanità per riorganizzare il proprio modello sociale e addirittura economico. Se n'è accorta perfino l'Unesco, che ha da poco proclamato Patrimonio dell'Umanità sei nuclei di faggete "vetuste" del nostro paese.

Il valore simbolico della memoria

Nella narrativa italiana i boschi vivono una stagione memorabile grazie soprattutto a Paolo Cognetti, al suo bestseller d'alta quota Le otto montagne ma ancora di più al prezioso Quaderno di montagna appena ristampato in versione illustrata: Il ragazzo selvatico. Chiuso in baita nella valle del Gran Paradiso, lo scrittore compila un personale Arboreto salvatico, scisso fra la disciplina del paesaggio di Mario Rigoni Stern e il panteismo naturalistico di Henry David Thoreau nella versione aggiornata da Jon Krakauer in Into the Wild. Abete rosso, pino silvestre, larice, pino cembro, i quattro grandi alberi dei duemila metri, sono presenze familiari e vivissime ma nello stesso tempo totem di un paesaggio interiore, simboli universali di rinascita.

Che il destino degli alberi sia misteriosamente legato al nostro lo testimonia in maniera struggente anche un libro come L'albero della speranza del giapponese Arai Man, la storia dell'albero sopravvissuto allo tsunami di Fukushima, vecchio di quattrocento anni. All'unico superstite del grande bosco di pini marittimi di Takata-Matsubara, isola di Honshu, è consegnato il valore simbolico della memoria. Non diversamente dai tanti Alberón delle nostre Alpi.

Per approfondire

Franco Arminio, Cedi la strada agli alberi

Paolo Cognetti, Il ragazzo selvatico

Matteo Melchiorre
Storia di alberi e della loro terra
Marsilio
221 pp., 16 euro


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