Il ricordo di Mario Arpino, tra tedeschi e titini

di, Generale Mario Arpino dall'ottobre del 1990 al marzo 1991, durante la guerra del Golfo a capo dell'unità di coordinamento aereo di Riyadh, in Arabia Saudita. Dal 1999 al 2001 è Capo di stato maggiore della Difesa.

«Tra le tante storie tragiche della Resistenza nel Nord-Est, sul nostro confine orientale, c'è anche qualche storiella minore – a lieto fine solo perché ci è andata bene - che riguarda la nostra famiglia. Abitavamo allora a Cave del Predil, una località mineraria frazione del Comune di Tarvisio, dove il papà era un impiegato amministrativo della Società delle Miniere (aveva anche l'incarico extra di sovraintendere l'azienda agricola del Priesnig e di curare il benessere degli operai), mentre mia mamma era maestra elementare. Allora frequentavo le prime classi delle elementari.

Erano i tempi, tanto per intenderci, in cui la Direzione della Società era commissariata dai tedeschi con un severo ufficiale prussiano di cognome Konradi (solo un braccio, l'altro l'aveva lasciato in Russia l'anno prima), mentre l'amministrazione, dove lavorava mio padre, era presidiata dal bravo maggiore Krievic, un austriaco che parlava la nostra lingua e cercava di non creare problemi. Ma erano anche i tempi in cui i partigiani comunisti di Tito (noi li chiamavamo i 'ribelli') avevano fatto saltare la centrale elettrica, danneggiato il 'pozzo Clara' (accesso alla miniera) e ucciso a calci e picconate 12 Carabinieri prelevati nel vicino borgo di Bretto (vedere il libro MALGA BALA, di Antonio Russo). Io li ho visti mentre venivano scaricati, ancora congelati, da un camion delle Miniere che ne aveva recuperato i corpi. Uno aveva ancora il piccone con il manico spezzato conficcato nel petto. Dopo quei giorni, una decina di giovanissimi militari italiani della GAF (guardia alpina di frontiera), muniti di una pistola con razzi di segnalazione rossi e verdi, a coppie avevano iniziato un servizio di avvistamento diurno su una collinetta dietro casa nostra, che guardava verso il Passo del Predil.

Noi ragazzini spesso salivamo a fare compagnia a questi 'amici' più grandi. A volte portavamo un paio di panini, avendo in cambio il permesso di maneggiare la lanciarazzi. Alcuni di loro, subito dopo la guerra, sono stati trucidati senza ragione (erano di leva) dai partigiani comunisti italiani, operativamente dipendenti dai titini. Sempre in quel tempo circolava la voce, avvalorata da elementi sloveni locali, che i ribelli avevano fatto sapere che presto sarebbero scesi in forze, per giocare a pallone davanti alla chiesa con le teste degli italiani. Noi, dopo aver saputo ed avuto evidenza delle modalità del massacro dei Carabinieri, non avevamo alcun dubbio che prima o poi lo avrebbero fatto. Tanto che, preoccupati, mia mamma e mio papà mi avevano mandato per qualche settimana a Udine (eravamo nel '44), ospite della nonna in via Mercatovecchio. La, però, stavano iniziando i bombardamenti. Ricordo che una volta sono scappato dal rifugio per salire sul piazzale del Castello. Volevo vedere a tutti i costi lo zio Carlo in volo (maggiore Carlo Miani, comandante del 2° Gruppo Caccia dell'Anr, di stanza ad Osoppo ed Aviano). Con quattro caccia, attaccavano in fila indiana, frontalmente, decine di Fortezze Volanti scortate da stranissimi caccia con due code. "Ormai perderemo, ma combattiamo lo stesso", ci aveva detto una sera dalla nonna. Poi mi hanno riacchiappato, e lo spettacolo è finito.

Con i tedeschi a Cave era andato tutto bene, almeno fino a quando una notte, a guerra quasi finita, un paio di filo-comunisti italiani (in paese circolava il nome di uno di loro) hanno avuto la geniale idea di assassinare a scopo dimostrativo il bersaglio più facile, proprio l'inoffensivo maggiore Krievic, amico di tutti, sparandogli alle spalle mentre rientrava a casa percorrendo un viottolo che correva non lontano da dove abitavamo noi. Infatti la pistola l'avevo trovata io il giorno dopo, gettata in un orto oltre lo steccato. Ma mia mamma, che mi stava accompagnando a dottrina dalle suore, me l'aveva fatta rimettere immediatamente dov'era, raccomandandomi di non dire nulla a nessuno.

Ai primi di maggio i tedeschi, dopo aver organizzato un caposaldo di resistenza sul Passo assieme a una compagnia di soldati rumeni, ricevevano l'ordine di ritirarsi, lasciando così campo libero ad una decina di giorni di occupazione da parte dei partigiani di Tito, che si accampavano proprio nel prato davanti a casa. Occupavano poi anche la scuola e la mensa degli operai, ormai vuote. Accompagnati dai comunisti locali giravano per le case, prelevando gli italiani maschi. Fascisti o meno, non aveva importanza. Un giorno, mentre già cominciavano a scendere dal Passo del Predil le camionette dei soldati inglesi (erano militari ebraici, che noi chiamavamo 'palestinesi'), i partigiani avevano già iniziato a perquisire il nostro appartamento, la cantina e la soffitta per cercare mio padre. Nel frattempo, viste da lontano le camionette, il papà era scappato fuori dall'ingresso secondario, mentre io e mia mamma, fratellino in braccio, trepidavamo per la sua sorte. Lo osservavamo dalla finestra e mi sembra ancora di vedere la scena. Vediamo che, sul sentiero che traversava il prato verso la strada, viene fermato mentre correva da un blocco di partigiani armati, usciti dai cespugli. Sento la mano della mamma sulla testa, che mi costringe a chinarmi sotto il davanzale, gridando: "Non guardare, non guardare, adesso lo ammazzano", e, subito dopo:" No, no, sta di nuovo correndo…" .L'abbiamo visto saltare dalla scarpata sulla strada ed essere issato a bordo delle camionette in arrivo. I 'palestinesi' avevano ben compreso cosa stava accadendo. Gli italiani portati via dai titini, invece, sono stati una quarantina. Allora si viveva così….

Era ormai maggio e, sebbene un po' tardi rispetto al resto d'Italia, la guerra sembrava finita anche sul confine orientale. A Cave del Predil i vincitori titini, che avevano issato una bandiera bianca, rossa e blu con la stella rossa sulla facciata della palazzina dell'ufficio delle Regie Poste, erano più che soddisfatti. Anche i vincitori italiani (quelli che qualche notte prima avevano assassinato l'innocuo maggiore Krievic), avevano anche loro issato, accanto alla bandiera di Tito, quella bianca, rossa e verde. Ma, nota bene, solo dopo aver cucito, per non essere da meno, una bella stella rossa nel bel mezzo del bianco.

La guerra era finita, e anche lassù da noi cominciavano le persecuzioni ed i tribunali dei CLN. Ma questa, ragazzi, è un'altra storia. Ve la racconterò».

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