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Caro Travaglio, su Sallusti, la grazia e Napolitano sbagli di grosso

I lettori di Marco Travaglio sono quasi sempre suoi fan. Come tali, credono ciecamente in quel che scrive. Sarà pertanto difficile, se non impossibile, convincerli che a volte anche Travaglio sbaglia. Il tema, però, merita comunque un generoso, per quanto inutile tentativo. Oggi, per esempio, il vicedirettore del Fatto quotidiano nel suo editoriale scrive alcune inesattezze.

Nell’articolo, puntualmente livoroso nei confronti del Quirinale e di Alessandro Sallusti, se la prende non tanto con il direttore del Giornale, condannato definitivamente per diffamazione aggravata a 14 mesi di reclusione, quanto con il capo dello Stato che pare stia ipotizzando un provvedimento di grazia.

Travaglio contesta preventivamente ogni atto di clemenza che dovesse arrivare dal Colle. Legittimo, dal suo tetragono punto di vista. Ma a tratti fa confusione. Leggiamo.

Nell’editoriale, Travaglio scrive che la Costituzione «non conferisce al presidente della Repubblica alcun potere di sindacare le sentenze definitive». Prima, pretestuosa confusione: non si tratta di sindacare alcunché. In base all’articolo 87 della Costituzione il presidente «può concedere grazia e commutare le pene», ovviamente se queste sono definitive.

Travaglio aggiunge che il capo dello Stato, «come presidente del Consiglio superiore della magistratura, è chiamato a votare sui procedimenti disciplinari contro questo o quel magistrato: ma per infrazioni deontologiche, non per il merito delle loro sentenze». E questo è un errore: non è mai accaduto che un presidente della Repubblica partecipasse al voto della sezione disciplinare del Csm.

Infine, Travaglio scrive che non ci sono precedenti per una grazia a condannati «senza che avessero scontato una parte di pena». Qui Travaglio accenna con qualche omissione al caso di Lino Jannuzzi: giornalista (e parlamentare), come Sallusti condannato per diffamazione dalla Cassazione. Nel suo caso, il rischio di reclusione divenne concreto nel 2002, dopo una condanna a poco più di 5 mesi per le parole che Jannuzzi aveva scritto sui magistrati che avevano incarcerato Enzo Tortora in base a prove poi risultate inconsistenti: gli aggettivi usati da Jannuzzi vennero ritenuti diffamatori perché i togati coinvolti nello scandalo non erano (né, inspiegabilmente, sono) mai stati sottoposti a inchieste.

Travaglio accenna che Jannuzzi rischiava il carcere perché stava per «superare i 3 anni di cumulo di pena» e perché stavano per arrivare «altre condanne (Jannuzzi aveva diffamato a manetta)». 
Il giornalista-senatore di Forza Italia, però, riuscì a evitare il carcere non per una grazia, ma per l'immunità di cui godeva in quanto componente del Consiglio d’Europa. Nel suo caso, dopo mille polemiche, l’esecuzione della pena fu sospesa per oltre 2 anni e l'ordine di carcerazione venne revocato esclusivamente per quel motivo «diplomatico-politico».

Nel giugno 2004, quando poi le immunità decaddero, Jannuzzi fu effettivamente costretto a scontare la pena, che però venne immediatamente trasformata in detenzione domiciliare dal Tribunale di sorveglianza di Milano: il giornalista-senatore poteva uscire di casa dalle 8 alle 19 per i suoi obblighi parlamentari e gli fu vietato di lasciare l'Italia senza l’autorizzazione del giudice. Solo in quel momento, e cioè di fronte al caso di un parlamentare recluso per reati d’opinione, il 16 febbraio 2005 l’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi firmò un provvedimento di grazia a favore di Jannuzzi.

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