CARLO CARINO / Imagoeconomica
Economia

Made in Italy, ma chi ferma gli stranieri?

Se c’è un’onta che i fratelli SergioPier Luigi Loro Piana non meritano, è alimentare l’equivoco sull’acquisizione per 2 miliardi dell’80 per cento della loro azienda da parte del colosso francese Lvmh. Chi ha scritto dell’ennesima frana del sistema Italia ha sbagliato. Non siamo a casi come Galbani, Invernizzi, Algida, Bertolli, e di moltissimi altri marchi italiani che, soprattutto nell’agroalimentare, negli ultimi anni sono divenuti di proprietà straniera. Nel più di quei casi difficoltà serie e serissime di mercato interno, unite spesso a errori manageriali e a endemica scarsità di capitali, hanno reso invitante per multinazionali straniere rilevare a prezzi interessanti nicchie di mercato italiane comunque assai meglio sostenibili con la forza finanziaria di grandi gruppi transnazionali.

In molti di quei casi, sì, è corretto parlare di frana del sistema Italia. L’esempio classico è la Parmalat. Dal più grande crac fraudolento della storia industriale italiana a una delle casse più ricche di liquidità, che alla fine non trova integrazione in nessun nostro grande gruppo alimentare e finisce per essere acquisita dai francesi Besnier per, si è visto, mettere le mani appunto su 1 miliardo e rifarsi dei propri debiti americani.

Nell’alimentare, nella cantieristica (il caso Ferretti), nell’auto e moto (Lamborghini, Ducati), cioè in settori comunque portanti del made in Italy, negli anni Duemila si è assistito all’impossibilità fattuale di realizzare sul mercato italiano processi di consolidamento che avrebbero potuto preservare la proprietà italiana. Costruendo cioè gruppi dotati di forza finanziaria, imprenditoriale, manageriale e commerciale adeguata alla sfida di un mondo che ha visto il manufatto italiano esportato percorrere per il suo acquirente non più i 1.400 km medi di 8 anni fa, ma ormai da 3 mila a 5 mila. La mancanza di integrazione verticale e di strategie pluribrand indebolisce di fatto la penetrazione italiana sui mercati emergenti in quei settori. Basti l’esempio della proiezione che i due grandi gruppi di distribuzione francesi, Auchan e Carrefour, realizzano in mezzo mondo all’intera verticale del valore agroalimentare francese. Da noi, Legacoop e gruppo Caprotti si fanno la guerra in Italia, un accordo sull’estero per proiettare le filiere dei loro fornitori nazionali suonerebbe apostasia.

Per tentare di dare una risposta sistemica a questi problemi è nato qualche anno fa, all’interno del sempre più vasto recinto della Cassa depositi e prestiti, il Fondo strategico italiano. Destinato, coi suoi 4,5 miliardi di dotazione, a dare gambe finanziarie a campioncini nazionali con buoni prodotti ma frenati da dimensioni troppo limitate. O meglio, all’inizio si era concentrato sulle filiere strategiche che non dovevano cadere in mani estere: difesa, sicurezza, reti tlc, infrastrutture. Con qualche ritardo, nel novembre scorso, ha spostato il suo radar verso le «4 F» del made in Italy, Cioè cibo (food), moda (fashion), arredo (furniture), automazione meccanica (fabricated machinery). E ha deciso di farlo non da solo, ma in cooperazione con la Qatar Holding che già in Italia ha acquisito Valentino, è in Tiffany con l’11 per cento, nella stessa Lvmh con l’1, e che è interessata a grandi catene di fascia alta come la britannica Marks&Spencer, dopo aver rilevato Harrods nel 2010.

Una buona idea, ma che dovrebbe darsi tempi più rapidi dei 4 anni che i due partner si sono assegnati per versare fino a 2 miliardi di capitale. L’enorme liquidità in giro per il mondo e la volatilità figlia del preavviso dato dalla Fed sulla prossima fine del quantitative easing accelerano i processi di fusione e acquisizione, prima che il denaro costi di più. Nel mondo della moda e del lusso sono state 125 le acquisizioni nel 2012, il 30 per cento più dell’anno prima. E in Italia dopo l’acquisizione ad aprile di Pomellato da parte del grande rivale francese della Lvmh, il gruppo Kering Ppr della famiglia Pinault che già ha in portafoglio Gucci, Bottega veneta e Brioni, offerte sono già piovute anche sui tavoli del gruppo Versace e di Krizia. Se il fondo Fsi e Qatar Holding non si muovono per tempo, presto altri marchi italiani faranno scelte non nazionali.

Torniamo a Loro Piana. Nel loro caso non stiamo parlando di un’azienda che dopo anni di voraci fondi private equity ne vede l’uscita e non sa come autofinanziarsi. Parliamo di un’impresa con tassi di crescita a doppia cifra in questi anni, in Cina come negli Usa, con un fatturato in corsa per superare i 700 milioni. Di un’eccellenza assoluta nei filati e tessuti, e in questo caso non è fuori luogo l’aggettivo «mondiale». Non lusso sfrenato come per gioielli e molte griffe, ma classe. I due fratelli hanno scelto loro a chi cedere la proprietà in cambio della garanzia che si continuerà a fare a modo «Loro». E hanno scelto Bernard Arnault, che da 25 anni ha realizzato per lusso-moda-classe ciò che la Volkswagen ha fatto nell’auto integrando 11 brand, che continuano ciascuno ad avere propri prodotti e segmenti di mercato, ma che insieme incarnano il miglior gruppo mondiale come strategia commerciale e bilanciamento di mercati.

«Quello che mi piace di più» ha dichiarato Arnault «è l’idea di trasformare la creatività in profittabilità». Il risultato è un colosso da 28 miliardi di euro di fatturato. Evitiamo perciò di dare a Sergio e Pier Luigi colpe che non hanno. Al riparo di una grande forza manageriale e finanziaria, continueranno a scrivere la storia di come dal pelo animale si copre delicatissimamente la pelle umana. Perché ci fosse una Lvmh o una Kering italiana, e le possibilità c’erano tutte, occorreva che vi si appassionasse un grande investitore italiano, 20 o più anni fa. Non c’è stato, in questo settore come in tanti altri. Eccezioni a questa regola ci sono, ma sono pochissime. Come naturalmente la Luxottica che continua nell’occhialeria ad acquisire all’estero, ultime la catena Sun Planet e il marchio Alain Mikli. O come nel retail Renzo Rosso, che a Dsquared2 e Just Cavalli in licenza ha aggiunto Mami. Ma sono eccezioni che non scalfiscono il tempo, le risorse e l’eccellenza mondiale dispiegata dai due maxigruppi francesi.

Le cessioni di proprietà sono talora l’epilogo, talaltra le premesse per nuove crescite. Ma derivano da un sistema Italia che nel suo complesso non fa quasi mai le scelte adeguate prima, quando servono. In particolare la vicenda che oppone due diversi modelli, in un settore italiano tradizionalmente importante come il mobile: il gruppo Natuzzi in fortissima ristrutturazione e il modello conto-terzisti che nello stesso distretto industriale ha abbattuto i prezzi fino a piegare le ginocchia a Natuzzi stesso. Ora siamo al tavolo di crisi. Ma negli anni in cui Natuzzi interrogava politica e opinione pubblica sulla sostenibilità di una concorrenza abbatticosti ma anche abbassa-qualità, e spesso non rispettosa delle leggi e dei contratti, tutti a girarsi dall’altra parte.

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