«Lavato e guarito dal lungo male, pronto finalmente a entrare nella vita». Primo Levi e la clemenza degli elementi

Nelle biografie degli elementi chimici – in forma di sali, metalli, leghe – che gli hanno cambiato o salvato la vita (raccolte sotto il titoloIl sistema periodico), Primo Levi racconta di quando un giorno tra il ’65 e il ’70 il collega Bruni a pranzo espose un fatto assai strano avvenuto anni prima, quando era responsabile del reparto Vernici Sintetiche di una «fabbrica in riva al lago»: aveva notato che nelle vernici antiruggine si era soliti mettere cloruro d’ammonio, un componente assurdo visto che è più adatto a corrodere il ferro di quanto non lo sia a proteggerlo dalla ruggine. Primo sa perché: la fabbrica è la stessa in cui aveva lavorato lui nel 1946, tornato da tre mesi alla vita dopo la prigionia.

Quell’anno, ancora «la carne e il carbone erano razionati, nessuno aveva l’automobile e mai in Italia si era respirata tanta speranza e tanta libertà». Le cose viste e sofferte gli «bruciavano dentro»: si sentiva «più vicino ai morti che ai vivi», e colpevole di essere uomo, «perché gli uomini avevano edificato Auschwitz». Scriveva poesie «concise e sanguinose», raccontava la sua orribile vicenda «con vertigine», come il Vecchio Marinaio di Coleridge che «abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi». Da quei ricordi nacque un libro, che solo mille e cinquecento persone in Italia erano state disposte a leggere. Ma di racconti e di poesie non si vive: il lavoro in fabbrica arriva come una promessa di normalità: c’era finalmente da pensare al futuro, alla casa, alla moglie, come tutti pensavano «al figlio che non tornava dalla Russia, alla stufa senza legna, alle scarpe senza suole, ai magazzini senza scorte, alle finestre senza vetri, al gelo che spaccava i tubi, all’inflazione, alla carestia». Alle cose minime e ai loro funzionamenti si facevano domande, e si chiedeva conforto: a chi poteva interessare il racconto della discesa nell’inferno?

Nei primi tempi non gli viene assegnato nessun lavoro: Primo si aggira per gli stabilimenti come un fantasma in cerca di occupazione; sente l’alienazione («ma allora non si chiamava così»), viene dirottato in biblioteca a farsi le ossa teoriche. Un giorno però il direttore lo chiama: c’è un lavoro da fare. In un angolo del piazzale, «ammonticchiati alla rinfusa», ci sono «migliaia di blocchi squadrati, di un vivace color arancio». Al tocco sono gelatinosi, e hanno «una consistenza sgradevole di visceri macellati». Dice al direttore che gli sembrano fegati, e quello lo loda: il fenomeno in inglese si chiama proprio così, «livering», «infegatamento», e in italiano «impolmonimento», e si verifica quando certe vernici da liquide diventano solide. Quei blocchi erano stati latte di vernice poi tagliate, e ora si doveva evitare di buttarle. Fatto sta che il problema, «mezzo chimico mezzo poliziesco», lo attira:

«lo andavo riconsiderando quella sera (era un sabato sera) mentre uno dei fuligginosi e gelidi treni merci di allora mi trascinava verso Torino. Ora avvenne che il giorno seguente il destino mi riservasse un dono diverso e unico: l’incontro con una donna, giovane e di carne e d’ossa, calda contro il mio fianco attraverso i cappotti, allegra in mezzo alla nebbia umida dei viali, paziente sapiente e sicura mentre camminava per le strade ancora fiancheggiate di macerie. In poche ore sentimmo di appartenerci, non per un incontro, ma per la vita».

Il giovane chimico scorticato, che nel campo – numero 174517 – ha già imparato come ricavare pane, cioè tempo, dalla esattezza minima del ferro-cerrio rivendendolo come pietra per gli accendini, deve trovare il mistero di quel processo che ha trasformato la vernice in fegato, capire come e dove nell’azione congiunta degli elementi (cromato, basico, e resina, alchidica) si sia prodotto lo strappo, e poi, una volta individuato l’errore, neutralizzarlo «dentro il corpo malato di quella vernice», riavvolgere il destino della materia e ricavarne la fluidità funzionale. In giorni di rinascimento, con la furia di un alchimista laico, lo scopre: un errore di trascrizione di una dose di un certo reattivo, avvenuto prima della guerra, aveva creato quel mostro.

È mutato il mondo: Primo si sente «lavato e guarito dal lungo male, pronto finalmente a entrare nella vita con gioia e vigore». Decide di aggiungere cloruro d’ammonio alla formula: riaaggiustando quel numero, «attingendo alla buona chimica inorganica, lontana isola cartesiana, paradiso perduto per noi pasticcioni», la vernice è diventata «fluida e liscia, in tutto normale, rinata dalle sue ceneri come la Fenice», tanto che da questo momento in poi il cloruro d’ammonio viene ufficialmente introdotto nella formula come preventivo anti-impolmonimento.

«Poi io diedi le dimissioni, passarono i decenni, finì il dopoguerra, e i deleteri cromati troppo basici sparirono dal mercato, e la mia relazione fece la fine di ogni carne: ma le formulazioni sono sacre come le preghiere, i decreti-legge e le lingue morte, e non uno iota può venire mutato. Perciò, il mio Cloruro Demonio, gemello di un amore felice e di un libro liberatore, ormai in tutto inutile e probabilmente un po’ nocivo, in riva a quel lago viene tuttora religiosamente macinato nell’antiruggine ai cromati, e nessuno sa perché».

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