La guerra vista dalla Polonia ha un solo nemico: Putin

«È ironico il cinismo che osserviamo ancora una volta nel territorio europeo. L’eradicazione o il tentativo di eradicare la popolazione. Questo è il motivo per cui siamo qui, per guardare in faccia a ciò che è accaduto, affinché non accada più. Dobbiamo combattere contro ogni sorta di propaganda e narrativa».

Il riferimento è alla de-nazificazione russa dell’Ucraina e le parole sono della presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, che ai microfoni di Panorama si dice «sconvolta» per il ritorno della guerra e «delle prevaricazioni contro un popolo nel nostro continente».

Siamo ad Auschwitz-Birkenau, in Polonia, dove ha sede il tristemente noto complesso di campi di concentramento e di sterminio che durante la Seconda guerra mondiale divenne teatro della «soluzione finale» dei nazisti – quelli veri – che qui mandarono a morte più di 1 milione di prigionieri, in gran parte ebrei.

La visita della presidente Eu è accompagnata da una vasta delegazione di parlamentari europei (ma non italiani, impegnati «in altre faccende») e dal premier del Montenegro, il giovane Dritan Abazović. La cui visita, ci dice, «è un contributo per le nuove generazioni affinché si promuova la cultura della memoria e dell’anti-disciminazione. Essere qui è un dovere di ogni leader europeo».

La data non è casuale: i rappresentanti europei sono stati invitati dalla European Jewish Association a rendere omaggio nel giorno noto come Kristallnacht, ovvero la «Notte dei cristalli»: il violento pogrom anti-ebraico del 9 e 10 novembre 1938, quando in tutto il Reich tedesco centinaia di sinagoghe furono attaccate, bruciate, vandalizzate, saccheggiate e distrutte per opera dei nazisti e delle squadre di assalto della Gioventù hitleriana, le SA.

Anche se nessuno ne parla volentieri, per non sviare il discorso dalla questione non meno grave dell’antisemitismo crescente in Europa, la «de-nazificazione» dell’Ucraina è sempre sullo sfondo. Un termine di paragone diventato sempre più odioso, da quando Vladimir Putin se n’è appropriato come scusa per invadere il territorio ucraino. Ironia della sorte, lo ha fatto proprio replicando gli orrori che i nazisti commisero durante l’invasione delle città e dei Paesi europei.

Come a Bucha, a Mariupol, a Izyum e come in tutte le altre conquiste temporanee delle forze di Mosca che, se non hanno saputo tenere le posizioni, hanno però fatto in tempo a brutalizzare la popolazione: nelle zone riconquistate dagli ucraini emergono ogni volta i segni dei massacri e delle sepolture sommarie di civili, soldati e di intere famiglie con bambini. Le ultime fosse comuni sono state ritrovate nella città di Lyman, riconquistata dalle forze di Kiev nella controffensiva che da settembre ha preso corpo a Sud e a Est, tra le regioni di Kharkiv, Donbass e Kherson.

«E pensare che i nazisti sarebbero gli ucraini» afferma uno dei delegati europei, che preferisce restare anonimo. «Oggi i nuovi nazisti sono proprio i russi, e non dimentichiamo che il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ha origini ebraiche. Questo la dice lunga su quanto Putin creda alla favoletta della de-nazificazione».

Qui in Polonia, è evidente, la guerra si sente molto da vicino. Il governo di Varsavia sta pensando di costruire un’altra barriera al confine con l’exclave russa di Kaliningrad, come ha già fatto alla frontiera con la Bielorussia: più di 200 chilometri da completare entro la fine dell’anno prossimo, per evitare che Mosca usi l’ingresso illegale di asiatici e africani attraverso Kaliningrad, sfruttando quel corridoio come strumento di guerra ibrida per fare pressione sull’Ue.

Ondate di profughi ucraini si sono già riversate in ogni città polacca e i racconti degli orrori delle armate russe terrorizzano i bambini, che temono (non meno degli adulti) di essere le prossime vittime di un’insensata invasione. Vladimir Putin, perciò, qui è considerato a tutti gli effetti il nemico numero uno. Per capirlo basta osservare i cartelloni sui muri: il Comitato per l’energia elettrica polacco ne ha realizzato uno dove campeggia il suo faccione sullo sfondo, mentre in primo piano vi è un palo dell’elettricità la cui ombra proietta un fucile kalashnikov. La scritta recita: Wysokie ceny energii to też jego broń, ovvero «Anche i prezzi elevati dell’energia sono le sue armi».

E in Polonia sono riuniti e protetti anche molti dissidenti del regime, per preparare il «dopo Putin». Ex deputati, colonnelli, attivisti, funzionari hanno formato una resistenza, nella convinzione che i mancati obiettivi della guerra da parte russa porteranno presto al cedimento del governo. Dunque, adesso non serve alcuna trattativa secondo loro, ma solo una spallata per l’affondo finale. Del resto, il Cremlino «non ha raggiunto uno solo degli obiettivi che si era prefisso quando ha scelto di violare così palesemente il diritto internazionale, e ora ne dovrà pagare le conseguenze» è il ragionamento dei dissidenti.

A queste latitudini, insomma, la determinazione dell’Unione Europea nel restare a fianco dell’Ucraina appare solida. Non meno del supporto degli Stati Uniti, che qualcuno vorrebbe invece «infastiditi e insofferenti» per le insistenze di Zelensky circa l’invio di nuovi armamenti a Kiev, indispensabili al prosieguo delle ostilità.

Nessun cedimento si osserva, in realtà, dall’altra sponda dell’Oceano, dove i russi speravano in una spaccatura dopo le elezioni di midterm per il rinnovo del Congresso Usa. Se i repubblicani avessero sfondato - era la tesi di Mosca - la Casa Bianca a guida democratica avrebbe avuto maggiori problemi nel continuare a finanziare la compagine ucraina.

Ma queste congetture non trovano riscontro per il momento, tanto più che i democratici hanno evitato il tracollo alla Camera e tengono ancora al Senato. Perciò, le speranze del Cremlino di dividere gli alleati (grazie a un voto non poi così significativo) sono evaporate in una sola notte. Non così le pressioni Usa sul riallacciare un dialogo tra le parti: su questo aspetto, invece, vi è una forte volontà da parte americana per raggiungere un accordo tra Kiev e Mosca.

Se ne parla da tempo, in effetti, ma sinora è rimasto un dialogo tra sordi: per dirla con il governo Zelensky, «la condizione principale per la ripresa dei negoziati con la Russia è il ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina», ha detto ieri il segretario del Consiglio di sicurezza e di difesa ucraino, Oleksii Danilov. Mentre Mosca è disponibile a un incontro «solo se non vi saranno pre-condizioni».

Per gli osservatori internazionali, molto è affidato alle sorti della battaglia di Kherson: dichiarata territorio russo attraverso un referendum-farsa, le truppe di Kiev sono sul punto di riconquistare se non l’intera regione, almeno il suo capoluogo, prima che l’inverno obblighi la fanteria a una pausa forzata dai combattimenti.

Al momento, l’evacuazione ordinata dai russi non procede, mentre parte della città è senza elettricità, senz’acqua e senza comunicazioni. L’artiglieria di Kiev martella le retrovie russe, che da par suo qui sta concentrando migliaia di soldati in preparazione della battaglia. Kherson era stata il primo vero successo russo lo scorso marzo, e perderla per il Cremlino significherebbe la definitiva presa di coscienza di una disfatta annunciata.

Ecco perché qui le truppe di Mosca resisteranno sino all’ultimo uomo, e perché la città chiave del sud ha una valenza strategica altissima: perdere Kherson aprirebbe la strada agli ucraini verso la Crimea, tenerla significherebbe non dover più cedere la regione. Per Washington, in ogni caso, dopo Kherson si può iniziare a trattare sul serio. Magari, spera qualcuno, già al prossimo G20 in Indonesia, in programma a Bali il 15 e 16 novembre prossimo. Ma nessuno s’illuda: è troppo presto.

Il presidente indonesiano Joko Widodo lo ha già fatto trapelare: «Ho la forte impressione che Putin non verrà. Il presidente russo potrebbe forse partecipare attraverso i canali virtuali».

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