Perché la nostra aviazione non riesce a fare utili

Pare proprio che in fatto di aviazione commerciale l’Italia non riesca ad avere pace. Nonostante l’operazione ITA Airways, infatti, la vicenda Alitalia è lungi dal chiudersi per sempre e bisogna restituire i 400 milioni del prestito mentre il bilancio della nuova compagnia appare ben lontano da quello immaginato e previsto alla sua nascita. Si dice che la causa sia l’aumento dei costi del carburante, eppure in altre nazioni i vettori guadagnano sull’onda della ripresa post-pandemia, ma a ben guardare l’Italia ha un problema endemico che affligge da decenni la sua aviazione civile. La verità è che non abbiamo saputo prevedere le conseguenze del regime di Quinta libertà sul mercato italiano, che con le sentenze del 1999 prima, e con le decisioni UE 1110 e 339 del 2007, ci ha trasformati in terreno di conquista da parte delle compagnie estere, mentre noi non abbiamo invaso alcun altro mercato.

Eppure, le potenzialità le avevamo, ed anche le occasioni. Ma posto che le regole aeronautiche sono le stesse in tutta l’Unione, perché a regolarle c’è l’autorità comunitaria EASA, per quanto l’Italia sia una destinazione ambita dai turisti di tutto il Pianeta rimaniamo una nazione piccola, con un mercato domestico invaso e uno intercontinentale da riconquistare, ed è inutile negare che a fare la differenza sia la fiscalità italiana che, applicata alle nostre compagnie aeree, favorisce poco la loro nascita e poi le rende zavorrate nel medio e lungo periodo. Hai voglia competere con irlandesi e olandesi, tant’è che questa situazione è il motivo per il quale d più parti si invoca la vendita di ITA a un gruppo internazionale come Lufthansa, in modo da mescolare i nostri guai con i loro e aumentare la massa critica con la (loro) già enorme quota di mercato.

Ci sarebbe un’altra soluzione, ma certamente contribuirebbe a metterci in una posizione antipatica in Europa: cambiare i nostri meccanismi perversi e dichiarare che l’aviazione civile, in quanto settore strategico per la Nazione, debba fruire di un regime fiscale differente ed espansivo. E a parte le compagnie, non è infatti un caso se la flotta di aeromobili registrati in Italia dal 1990 a oggi sia stata decimata e se anche i nostri aeroporti al di sotto del milione di passeggeri sono praticamente tutti in rosso. Ma in questo caso, oltre a normative soffocanti, a non essere sostenibili non sono gli aeroporti in quanto tali, bensì le costosissime società di gestione che li amministrano, quelle che i piccoli aeroplani li rifiutano o li scoraggiano ad atterrare perché non remunerativi, e poi per gestire sei voli settimanali assumono quaranta persone.

Perché poi se non sei Il Caravaggio di Bergamo Orio al Serio, il Forlanini di Linate o il Leonardo da Vinci Fiumicino, i bilanci arrancano. Ed è incredibile come ripetiamo all’infinito sempre gli stessi errori, considerando gli aeroporti come centri commerciali, stipendifici, generatori di indotto a vario titolo ma mai con l’umiltà che servirebbe per farli funzionare: gli aeroporti sono porti, approdi, servono la comunità locali esattamente come le strade, devono essere aperti e accogliere tutti, dalle scuole di volo al jet privato e farlo con gli stessi costi della Francia e dell’Olanda. Allora anche la nostra aviazione potrà davvero ripartire.

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