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Istruzione di seconda scelta

Istruzione di seconda scelta

L’editoriale del direttore

Prima di parlare di aumenti in busta paga generalizzati, forse sarebbe il caso di ragionare sulla qualità degli insegnanti.


La politica si è accorta che in Italia i docenti sono pagati poco. Da giorni infatti si inseguono proposte per alzare lo stipendio degli insegnanti. C’è chi, come il ministro Giuseppe Valditara, propone buste paga differenziate tra Nord e Sud, adeguandole al caro vita delle diverse regioni, in modo da consentire una mobilità dal Mezzogiorno verso il Settentrione, dove mancano i professori. E chi, come la capogruppo del Pd alla Camera Debora Serracchiani, propone un aumento generalizzato, in tutto lo Stivale. Obiettivo, ha spiegato Francesco Boccia, sempre del Pd, arrivare a duemila euro netti in busta paga. «Così consentiremmo al nostro Paese di raggiungere quantomeno il livello medio stipendiale del resto d’Europa» ha detto Barbara Floridia, sottosegretaria al ministero dell’Istruzione nel governo Draghi.

Peccato che per alzare gli stipendi e raggiungere quota duemila, come vorrebbero a sinistra e come sarebbe auspicabile, servano otto miliardi l’anno, ovvero una cifra non proprio ininfluente nel bilancio statale. In un momento in cui non ci sono neppure i soldi per ritoccare al ribasso le accise sulla benzina, risulta difficile immaginare che il governo possa trovare risorse per un simile aumento, soprattutto considerando che intervenire sui salari degli insegnanti poi aprirebbe il varco alle richieste di altre categorie del pubblico impiego, che da anni vedono mortificate le loro aspettative.

Certo, siamo tutti d’accordo nel ritenere che uno Stato che voglia scommettere sul proprio futuro e su quello delle prossime generazioni debba investire in istruzione. Purtroppo, nel corso degli anni i tagli lineari hanno colpito il settore, al punto che oggi, in rapporto al Pil, la spesa per l’educazione ha una percentuale tra le più basse d’Europa. I Paesi della Ue investono nella scuola il 5 per cento del Prodotto interno lordo, noi il 4,3, contro il 7,2 della Svezia, il 6,6 del Belgio, il 6,4 della Danimarca. Peggio di noi fanno solo l’Irlanda, la Romania e la Bulgaria. In valore assoluto, spendiamo la metà della Germania, il 45 per cento in meno della Francia, un terzo in più dell’Olanda, che però ha meno di un terzo dei nostri abitanti.

I numeri, in pratica, sembrerebbero dare ragione a chi sostiene che non solo bisognerebbe aumentare lo stipendio agli insegnanti, per riallineare le buste paga al livello medio europeo e consentire che i migliori laureati non rifuggano l’idea di salire in cattedra, ma si dovrebbe investire di più nella scuola, perché l’istruzione poi garantisce un ritorno in termini di lavoro e di crescita economica del Paese. Però dietro alle cifre si nascondono dati di fatto che non possono essere ignorati e forse spiegano perché le buste paga dei professori siano leggere come una piuma e il livello dei docenti non sia sempre adeguato (con l’inevitabile conseguenza che pure quello degli studenti non possa poi eccellere).

Se si confrontano i dati con gli altri Stati del continente, senza limitarsi agli investimenti e alle retribuzioni, si scopre che in Italia abbiamo più insegnanti di quelli su cui possano contare i nostri alleati nella Ue. Già nel passato, il libro bianco della scuola segnalava un «forte eccesso italiano del rapporto insegnanti-studenti rispetto al valore medio dell’Ocse», ma nonostante l’impegno per portarlo gradualmente e contestualmente ai livelli europei, nulla è accaduto. Anzi, dopo una sforbiciata ai tempi di Giulio Tremonti di circa 87 mila cattedre, con Matteo Renzi abbiamo assistito a una maxi infornata di docenti, con il risultato che si è tornati al punto di partenza. In pratica, nella scuola primaria abbiamo un rapporto di 11,2 alunni per insegnante, contro una media europea del 13,6. Un dato che però aumenta se si guardano i principali Paesi Ue. Infatti, in Francia troviamo un docente ogni 18,5 studenti, in Olanda uno ogni 16,3, in Germania uno ogni 14,9, per non parlare del Regno Unito, dove si arriva anche a 20.

In sintesi, più docenti che stipendi. Ne abbiamo di più, ma li paghiamo di meno. Abbiamo preferito investire sul personale e così gran parte delle risorse destinate alla scuola se ne va nelle buste paga. Vi chiedete la ragione di questa scelta? La risposta è semplice: negli anni i governi hanno ceduto alle pressioni del sindacato, il vero padrone della scuola, allargando gli organici anche se non ce n’era bisogno. Così, Cgil, Cisl e Uil hanno aumentato il loro potere, ma l’Italia ha perso. Tutto ciò ha migliorato il livello dell’istruzione? No, il peggioramento è evidente, perché i bassi stipendi spalmati su più docenti hanno fatto fuggire i migliori. Con il risultato che la cattedra è spesso considerata una scelta di ripiego per chi non ha altre chance nel mondo del lavoro. Dunque, prima di parlare di aumenti in busta paga generalizzati, forse sarebbe il caso di ragionare sulla qualità degli insegnanti. Se l’istruzione è fondamentale per un Paese che vuole crescere, salire in cattedra non può essere una seconda scelta.

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