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Guerra al terrore: ma è giusto pagare i riscatti?

Vantandosi in una recente lettera con il collega leader di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim), Nasser al Wuhayshi, numero 2 del movimento islamista nella penisola
arabica (Aqap), gongolava per il fatto che «la maggior parte dei costi della battaglia erano pagati dai bottini: quasi la metà dei quali proveniente da riscatti. I rapimenti costituiscono un facile bottino, un affare vantaggioso e un tesoro prezioso». Per quanto l’affermazione di Wuhayshi possa apparire vanagloriosa, mette in evidenza le ragioni per cui il pagamento dei riscatti è qualcosa che i terroristi e i gruppi estremisti considerano un’attività fondamentale per la continuazione delle loro azioni.

Le organizzazioni terroristiche e gli insorti hanno bisogno di soldi. Operando in ambienti ostili, dove rifornimenti e fondi scarseggiano, il denaro è necessario per comprare cibo, vestiario e armi, per pagare le spese di trasporto e i combattenti, e per assicurarsi il transito in aree governate da signori della guerra e capi tribali che altrimenti potrebbero denunciare le attività sospette alle autorità. Le attività criminali come contrabbando o estorsioni consentono di incassare soltanto parte dei fondi, ma richiedono forti investimenti e un grande impiego di uomini. Mentre fare soldi con i rapimenti è decisamente più facile e veloce.

I gruppi armati sono sempre più consapevoli degli ingenti profitti che è possibile realizzare sequestrando persone di paesi noti per correre in soccorso dei propri cittadini, e puntano individui provenienti da stati più disposti a pagare per la loro liberazione. È un’operazione puramente economica, nella quale l’ideologia c’entra poco. I soldi ricevuti sono indispensabili per le attività terroristiche e si può tracciare la parabola delle varie formazioni a seconda della loro capacità di assicurarsi fonti di finanziamento. Così mentre il nodo attorno al nucleo di al Qaeda si è stretto e l’attività della rete terroristica è diminuita, quella di gruppi come al Qaeda nel Maghreb
islamico, al Qaeda nella Penisola arabica, o Isis prosperano grazie alla loro abilità nell’ottenere denaro dalle attività criminali.

La situazione per coloro che sono prigionieri in Siria è sfortunatamente ancora più complicata, perché non sono chiare le motivazioni per cui i miliziani
dell’Isis trattengono gli ostaggi. Stanno chiedendo soldi per rimetterli in libertà o hanno soltanto intenzione di usarli come scudi contro attacchi esterni? Ciò che è
chiaro, tuttavia, è che gli ostaggi resteranno pedine dei gruppi che cercano fondi e attenzione. Il fatto che famiglie, aziende e governi alla fine decidano di pagare
è solo un modo per perpetuare questo circolo vizioso, aumentando il numero di gruppi che guardano al rapimento come un’attività lucrosa.
Per interromperlo è necessario che tutti si rifiutino di pagare. È una decisione difficile da mettere in pratica, e anche difficile da fare accettare a famiglie e opinione
pubblica. Ma è l’unico modo per chiudere la «fabbrica dei sequestri».

*Esperto di sicurezza e terrorismo al Royal united services institute (Rusi) di Londra

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