Maurizio Pollini, intervista

Sul fatto che il Maestro sia un perfezionista non c’è dubbio. Per esempio, sull’aria condizionata: difficile trovare il giusto equilibrio tra caldo e freddo, questione di qualche centesimo di grado e infinitesimali percentuali di vapore acqueo. È in un hotel di San Casciano dei Bagni (Siena) dov’è in vacanza con pianoforte a coda al seguito.

Problema: scegliere la stanza dove fare l’intervista. Soluzione: prima ci ha condotto in un salottino sul retro, dove però c’era puzza di fumo e una temperatura troppo elevata, oltretutto la filodiffusione sparava canzonette senza tregua: «No, qui non va bene. Quest’estate la Toscana è una sauna» sbuffa Maurizio Pollini. Quindi siamo andati al bar dove però le bocchette bombardavano dal soffitto fiotti di aria gelata, quindi ha inarcato le sopracciglia: «Sembra di stare in un frigo, cerchiamo un altro posto». Poi siamo usciti sulla terrazza che si affaccia sulle colline toscane, ma l’umidità era eccessiva e le zanzare pericolosamente fameliche.

La strada verso la perfezione è disseminata di ostacoli. Stavamo ormai disperando di portare a casa l’intervista, intanto seguivamo il Maestro in bermuda lungo gli interminabili corridoi dell’albergo. Sarà stata suggestione, ma ci ricordavano quelli dell’Overlook Hotel di Shining. Ed ecco l’illuminazione: «Andiamo dove studio e tengo lo strumento, se fa troppo freddo spegniamo il climatizzatore».

Già, perché nella scelta dell’hotel per Maurizio Pollini è fondamentale che gli lascino portare il suo pianoforte, mica uno qualunque: uno Steinway & Sons lungo quasi tre metri. In tanti dicono di no, un po’ come succede per i cani. Vicino alla sua tastiera non soffre più l’afa e non teme il gelo.

E questo bestione dove l’ha preso?
Me l’ha portato qui Angelo Fabbrini, il tecnico accordatore con cui lavoro da quarant’anni.

Dicono sia la sua vittima preferita, che lo costringa a snervanti giornate di prove alla ricerca di una nota perfetta.
Angelo è anche più fanatico di me: sarebbe capace di passare anni a lavorare su uno strumento per suo piacere personale. Nella vita ha comprato qualcosa come 200 Steinway.

Come vi siete incontrati?
Ho cominciato ad appoggiarmi a lui perché non sempre girando per il mondo si trovano pianoforti di qualità. Dipende dal paese: bene in Giappone, molto meno bene negli Stati Uniti. Lì una volta non si potevano suonare Steinway di Amburgo, che sono i migliori. E anche oggi non è facile trovarli.

Arthur Rubinstein, quando lei vinse a 18 anni il concorso Chopin a Varsavia, disse: «Questo giovane suona meglio di tutti noi».
Esagerato: il giudizio era generoso...

Il pianoforte la segue ovunque?
Non proprio sempre, di solito sto un mese all’anno senza toccare i tasti. Quest’estate eccezionalmente non ho suonato solo una settimana ad Alghero: poi a Villasimius ho preso un piano noleggiato a Cagliari per esercitarmi un po’ e qui in Toscana me lo ha fatto arrivare Fabbrini.

Maestro, perché non ha mai composto?
Vorrei saperlo anch’io. Ho studiato composizione, però non ho mai scritto niente.

E non ama neppure improvvisare?
No, non improvviso mai. Ma non ho preconcetti su chi improvvisa, io non lo faccio e basta. Preferisco così.

Certo che lei non è un uomo di tante parole.
Sì, lo so. Una volta un giornalista inglese mi disse: «Parlare con lei è come cavare sangue da una pietra».

Che differenza c’è tra suonare e interpretare?
La funzione dell’interpretazione è fondamentale: la grande musica del passato è vissuta attraverso gli interpreti che hanno saputo trasmetterla. L’interpretazione non è improvvisazione, ma indubbiamente c’è un fattore d’improvvisazione. Si tratta di un fatto misterioso: un pezzo è stato sviscerato in tutti i suoi elementi, attraverso esecuzioni e studio, ma poi quando sei in sala a suonare ti trovi nella condizione di dovere fare tutto da capo. Non dico che non conti la preparazione, ma il pezzo deve vivere in quel momento attraverso un’improvvisazione.

C’è un rapporto stretto tra l’interprete e il compositore, anche se il secondo è vissuto 200 anni prima?
C’è un legame fortissimo. È ovvio cercare l’autenticità di un’interpretazione, di una visione e di una musica, ma quando si può arrivare a dire di avere capito cosa il compositore «sentiva» o «pensava»? Questo è un enorme punto interrogativo: nessuno lo saprà mai con certezza. Quindi c’è la fondamentale necessità di avere fiducia nel proprio istinto.

Ci sono compositori verso cui lei sente un’affinità più forte?
Sì, però avrei difficoltà a stilare una graduatoria.

Fryderyk Chopin? È uno degli autori di riferimento…
Certo che amo Chopin. Arrivare all’essenza della sua musica è difficilissimo: da decenni mi ci dedico, ma lui sembra difendere il segreto delle proprie note. Wilhelm Furtwängler diceva: «Invidio i pianisti perché loro hanno Chopin».

Se si parla di musica d’arte, tutti pensano a Mozart e Schubert… Insomma volgiamo lo sguardo più indietro che avanti. Perché?
Perché il 90 per cento dei programmi dei concerti è fatto di autori del Sette-Ottocento. Questo porta a una perdita sia per quanto riguarda la musica più antica sia per quella attuale. Per la prima è una scomparsa quasi inevitabile: i grandi autori antichi, come Guillaume de Machault e Josquin Desprès, sono pressoché sconosciuti al grande pubblico.

Chi, scusi?
Ecco vede che ho ragione.

E la musica del ’900?
La prima parte è entrata nella coscienza musicale, la seconda mica tanto. Autori come Karlheinz Stockhausen, Pierre Boulez, Luciano Berio, Luigi Nono non hanno ancora la presenza che meriterebbero nel cartellone dei concerti.

C’è chi sostiene che è una musica più rivolta agli addetti ai lavori che al pubblico…
Bisogna fare un discorso sulle caratteristiche del linguaggio musicale o dell’arte, e sul significato dell’opera. Wassily Kandinsky ha sintetizzato questo rapporto in uno scritto: in sostanza l’autore cerca elementi che servano a concretizzare la sua ispirazione. Trova quindi i soli suoni, le linee o i colori che gli permettono di esprimerla, ma attenzione, non è che possa cambiarli. Cambiare per esprimersi in modo tradizionale, il che forse accontenterebbe molti ascoltatori, direbbe qualcosa di diverso e non quello di cui ha necessità.

Necessità?
La necessità interiore è la legge fondamentale dell’arte, quindi il compositore non può scrivere suoni che siano più comprensibili al pubblico. Lui ha trovato questi suoni e non può cambiarli o renderli in qualche modo appetibili. Piuttosto è il pubblico che deve comprenderli attraverso un approfondimento.

Ma come spiega questo ritardo nella comprensione della musica contemporanea?
Prendiamo l’esempio di Gustav Mahler, che oggi è uno degli autori più amati e suonati. Un completo apprezzamento della sua musica è avvenuto solo negli anni Settanta, ovvero più di mezzo secolo dopo la sua morte. Come vede, anche in passato non sempre i talenti erano riconosciuti; e oltretutto Mahler usava un linguaggio tonale, si figuri le difficoltà con la dodecafonia. Ci sono anche altri casi: quando, verso il 1840, Richard Wagner diresse la Nona di Beethoven, questa sinfonia era ancora considerata quasi inascoltabile.

Ma allora, in passato, tutto era come oggi?
Non proprio: non venivano eseguite composizioni del passato, ma si presentava il nuovo, l’inascoltato. Oggi ci troviamo in una situazione capovolta.

Da dove bisogna partire per avvicinarsi alla musica di oggi?
Da esperienze musicali. L’educazione musicale nelle scuole non esiste.

E poi?
Sono convinto che sia necessario investire e osare nella musica; com’è accaduto nel campo delle arti visive, dove opere di pittori del nostro tempo sono entrate nella conoscenza grazie ai galleristi.

Che influenza ha avuto la musica contemporanea nella sua formazione?
L’esperienza dei compositori più vicini a noi è essenziale per un musicista.

Lei sta facendo qualcosa per educare il pubblico alla musica contemporanea?
Ho fatto molti concerti di musica contemporanea alla Scala, a Salisburgo, in Giappone. L’anno scorso e quest’anno ho immaginato un ciclo di concerti a Lucerna. Il 30 agosto farò l’ultimo: ho unito pezzi contemporanei a delle Sonate di Beethoven, con l’idea che dovrebbe essere lo stesso pubblico e non un pubblico diverso, non una platea speciale di iniziati, a comprendere la musica contemporanea. Se ci sono motivi di godimento nei brani del passato, ci sono anche in quelli di oggi.

Ma perché, tra i classici, ha scelto proprio Beethoven?
Perché storicamente è uno tra i compositori che ha maggiormente rivoluzionato il linguaggio musicale. C’è una sua lettera in cui dice che lo scopo dell’arte è inventare cose nuove.

E quali pezzi contemporanei ha associato alle Sonate?
Sono stati invitati tre compositori viventi a scrivere pezzi per pianoforte unito ad altri strumenti: Giacomo Manzoni, che è stato presentato lo scorso anno; Salvatore Sciarrino ha scritto un pezzo per cinque voci di madrigalisti, strumenti e piano che verrà eseguito in prima mondiale il 30 da mio figlio Daniele. Il terzo è Helmut Lachenmann, che però non ha potuto completare la sua composizione, per cui abbiamo programmato il terzo quartetto intitolato «Grido».

Per scoprire la musica contemporanea quali brani bisogna ascoltare?
Il metodo più logico sarebbe seguire un processo storico e accostarsi al mondo dei classici moderni con Igor Stravinsky, Arnold Schönberg, Alban Berg, Anton Webern per poi arrivare ai moderni classici come Stockhausen, Boulez, Berio, Nono e infine ai musicisti di oggi. Però non è detto che il modo graduale sia il migliore, c’è un elemento di pedanteria che potrebbe essere evitato ascoltando subito un pezzo contemporaneo.

Ma la musica si capisce o si percepisce?
La musica parla all’uomo nella sua completezza, non siamo divisi in elementi separati. L’elemento emotivo e quello intellettivo esistono contemporaneamente nella musica di ieri come in quella di oggi.

Come possiamo sapere se abbiamo compreso il senso di una musica?
Dall’emozione che suscita in noi. Non è certo un criterio scientifico però è l’unico che davvero funziona.

Ma tra cent’anni i compositori di oggi saranno i classici di domani o continueremo ad ascoltare Mozart e Bach?
Io vivo in questo momento, ma penso che seppur lentamente i compositori di oggi entreranno nella realtà musicale di tutti i giorni.

E chi saranno: Boulez, Berio, Nono, Stockhausen, György Ligeti?
Sì, questi e anche altri.

Non crede che anche per i pianisti sia in atto una deriva verso lo star system?
Vede, la musica del Sette-Ottocento fa da padrona nei concerti, e questo fa sì che gli interpreti siano più conosciuti, lodati e seguiti dei compositori stessi. Il che è un’assurdità e favorisce il divismo.

La musica ha anche un valore civile…
Certo, per esempio Daniel Barenboim ha creato un’orchestra composta da musicisti palestinesi e israeliani, la West Eastern Divan orchestra: insieme superano i conflitti. E Claudio Abbado ha fatto molti concerti con l’orchestra Simón Bolívar, ideata in Venezuela da José Antonio Abreu per aiutare i ragazzi dei barrios a riscattarsi tramite la musica.

Con Abbado ha qualche progetto in corso?
Sì: progetti di concerti, per esempio a Vienna e a Ferrara.

Lei è d’accordo con il fatto che la cultura debba produrre denaro?
È un criterio assolutamente folle, che viene applicato da noi perché la mentalità capitalistica porta a questo.

Quante ore studia al giorno?
Di solito suono quattro ore, certe volte di più. (L’intervista è finita e Maurizio Pollini ci accompagna fino nella hall: «Adesso la saluto» si accomiata. «Scusi, ma qui l’aria condizionata è davvero troppo alta»).

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