Guarda come mi hai sistemato

Quando, nel 1924, Boris Pasternak accompagna la moglie Ženja e il figlioletto alla stazione di Mosca per la prima separazione dopo il matrimonio celebrato 2 anni prima, il suo smarrimento è tale che lo spinge a scriverle una lettera mentre il treno è ancora visibile lungo le rotaie («Se non ti sei spostata in uno scompartimento a due posti, devi patire tanto in questo viaggio»).

Passeranno giorni di pianti a distanza, riavvicinamenti, accuse e rancori. Entrambi si «inebriano della difficoltà di prendersi», e pure di lasciarsi. Lui, squattrinato nel freddo di Mosca, la prega: «Sii assente come un Dio e come Dio sii con me»; lei, da San Pietroburgo (ormai Leningrado) si esaspera: «Crederti mi resta difficile, sono due anni che periodicamente dici belle parole promettenti, ma la mia vita non è mai stata così difficile, desolata e sofferta come da quando vivo con te».

Lui verga su carta gialla (di cui è un feticista) la propria inadeguatezza: «Amarti si può soltanto con forza. Amare con forza vuol dire amare come i greci, rifarsi alla tragedia»; lei, ferita dal suo egoismo infantile, ne ridimensiona gli slanci: «non mi arrivano tutte le tue parole tenere, mi sembra di non essere stata io a provocarle ma che, per caso, durante la mia assenza, sei diventato di questo umore».

E infatti, il caso prende forma e voce qualche tempo dopo, quando in una serata di poesie, vino e canzoni, Boris incontra Marina Cvetaeva, con cui inizia una corrispondenza fittissima, di cui in un primo momento decide di mettere a parte la moglie («se mi avessi incontrato ieri sera, persino tu ti saresti innamorata di me»).

Per Ženja è il colmo: gli fa rispondere da sua sorella, lo evita, si mette in viaggio verso un’altra città, poi un’altra (tra Russia e Germania le stazioni la immortalano mentre scuote la testa, delusa, rassegnata, esterrefatta). Lui inveisce contro di lei, dovunque ella sia: «Potrei amarti e ti amo con una tale semplicità e devozione, ma tu con me sei così piena d’amore proprio, così meschina, così interessata, così estranea, così piena di odio». Intanto si scrive con la Cvetaeva, appassionato; poi riscrive alla moglie: «Guarda come mi hai sistemato! Con quella offensiva leggerezza, senza giovamento per te stessa. Perché, perché?».

Due anni dopo, nel maggio del 1926, Boris matura un proposito: sistemare Ženja e il bambino a Monaco in attesa di raggiungerli in autunno, e nel frattempo andare a vivere con Marina, «il che significa solo sedersi al tavolo a lavorare».

Ženja va a Monaco, ma tace. «Ti supplico, scrivimi», insiste lui dalla «terribile lontananza» da lei creata. «La tua crudeltà mi sorprende. Ti supplico… Perché mi tormenti? Che c’entra Marina, se l’unico, il più terribile ostacolo perché tu possa servirti di me sei tu stessa». Lei rompe il silenzio: «Nel mio desiderio di non scriverti non c’è nulla di premeditato» e, dopo parole freddissime, chiude «Stai bene».

Lui prende alcune frasi delle lettere che si scambiano e le mette nei romanzi e nelle poesie; poi, nel suo infinito, tirannico egotismo, le dà un ultimatum: «se mi ami, dimmelo in modo che io possa leggerlo, capirlo e sentirlo. La tua resa dei conti, [è] da vittima col suo carnefice. (…). Una donna innamorata, fatta schiava, deve soffrire. Ma deve soffrire anche una donna non innamorata, fatta padrona. (…). Non è chiaro quale sia il caso nostro. Per capirlo, devi sgomberare il tuo cuore da quella resa dei conti con me».

La gelosia spacca il silenzio di Ženja. Si tratta di una gelosia di secondo livello: non quello dei corpi caldi che condividono uno stesso ambiente, fosse pure quello di un tavolo da lavoro; ma la gelosia delle lettere che Boris spedisce a entrambe le donne, facendole nascere nel suo cervello, trasmettendole alla mano, imbucandole alla stessa cassetta, mettendole in viaggio, per campi e stazioni, verso due cuori diversi. E viceversa: immagina con pena le lettere di due donne che fanno la strada verso di lui, suo marito: «Immaginare che due lettere, con il nome pronunciato alla stessa maniera, faranno all’andata la medesima strada, mentre al ritorno la loro anima e destino verranno divisi e parzialmente smistati, mi fa venire la nausea».

Boris non ha più dubbi: se il loro matrimonio è incrinato è colpa di lei e della sua gelosia che non sa riconoscere a lui il diritto di sfamare la sua anima vorace. Marina non lo avrebbe mai fatto! Marina, certo, non lo metterebbe con le spalle al muro. Tantomeno con l’iconografia infantile di due lettere spedite allo stesso uomo. Naturale, visto che a Marina lui non ha detto nulla, cullandosi del presente che riesce a rubare senza perdere tempo a spiegare.

E infatti: quando lo scopre, Marina interrompe la corrispondenza con Boris. I motivi li dice in una lettera a Rilke. Sorprendente l’immagine che sceglie per comunicare il suo disgusto: «Caro Rainer. Boris non mi scrive più. Nell’ultima lettera mi ha scritto: tutto, in me, eccetto la volontà, ha il tuo nome e appartiene a te. Lui chiama volontà la moglie e il figlio, che adesso si trovano all’estero. Quando ho saputo di questo suo secondo ‘estero’ gli ho scritto: due lettere dall’estero, basta! Non possono esserci due nonpatrie. C’è quello che sta al di qua dei confini e quello che ne è fuori. Io, sono fuori! Io esisto, e non mi divido. Che gli scriva la moglie, che le scriva lui. Dormire con lei e scrivere a me, due buste, due indirizzi, con la stessa calligrafia…».

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