Giacobbo torna con Freedom: «Tra i conduttori dei programmi impegnati nessuna gelosia»

Freedom – Oltre il confine non è Ulisse, né Roberto Giacobbo vorrebbe lo diventasse. «Ognuno di noi», dove «noi» sta per «divulgatori», «Ha uno stile proprio e riconoscibile, qualcosa che distingue i programmi l’uno dall’altro, senza bisogno di arrovellarsi sulle strategie da adottare con la concorrenza». Eppure, se gli si chiede come si regoli con Alberto Angela e l’offerta Rai, con Cesare Bocci, che su Canale 5 ha portato il suo Viaggio nella grande bellezza, fa riferimento ad un senso di comunità che somiglia a qualcosa di più sportivo: uno spirito di squadra, un affetto genuino. «Noi ci distinguiamo per stile, ma siamo figli di una stessa mamma», dice Giacobbo, il cui Freedom tornerà su Italia1 nella prima serata di lunedì 15 gennaio. «La verità è che siamo pochi, come panda che abbiano superato il momento dell’estinzione e possano tirare il fiato. Le prime serate di divulgazione sono ancora poche, l’unica accortezza sta nell’evitare la sovrapposizione».

Perché sono poche? Il genere, oggi, ha trovato la chiave per un successo più che pop.

«Perché è molto difficile trovare dei divulgatori. Ci sono tanti pronti a definirsi tali, ma per costruire un divulgatore ci vogliono dieci anni. La rete deve investire, così come il professionista. La credibilità nasce lentamente e non per tutti. Quello per diventare divulgatore è un percorso per pochi, duro e difficile: richiede impegno, fatica e in gioco entra anche la fortuna».

Dunque, il fatto che voi divulgatori non abbiate più spazio non è colpa di una o dell’altra rete?

«No. Credo il discorso sia sempre legato agli uomini. Se si vogliono fare più prime serate, servono più uomini. Serve spirito di sacrificio, dedizione. Non è facile».

Quanto ci vuole per produrre una stagione di Freedom?

«Fra l’idea e la sua trasformazione in puntata, con messa in onda, passano circa sei mesi. È lavoro di cesello, che passa dalla verifica dei luoghi. Noi siamo quaranta persone, produciamo ottanta documentari all’anno e ci occupiamo di tutto, dalle ricostruzioni storiche alle musiche, originali».

La sua è una vita con la valigia, praticamente.

«La mia e pure quella di mia moglie, Irene Bellini, capoprogetto di Freedom. Ci siamo conosciuti a Telemontecarlo. Da allora, il nostro acquisto più ricorrente sono state le valigie. Più volte, ho dovuto cambiare il passaporto perché a corto di pagine. Quest’anno, saranno venticinque anni».

Venticinque anni di cosa?

«Di messa in onda ininterrotta di prima serata. Il 19-9-1999 è stata trasmessa la prima puntata di Stargate. Telemontecarlo sarebbe diventata La7 e Stargate si sarebbe evoluto in altri programmi. Il format non è mai cambiato. Quel che è cambiato è il modo di raccontare le cose».

Un modo che, negli ultimi anni, è riuscito a far presa sui giovani, svecchiando il genere. Come?

«Noi siamo un’alternativa al divertimento del corpo. Dobbiamo divertire la mente, sapendo che esistono miliardi di opportunità per divertire l’occhio, le orecchie. Quel che dobbiamo fare, dunque, è rispettare lo spettatore, porci al suo livello e creare un legame empatico».

Obiettivo centrato?

«Beh, pochi giorni fa, un padre mi ha taggato su Instagram nella foto del figlio di cinque anni. Era seduto davanti alla televisione a guardare una pillola di Freedom. Noi non abbiamo uno spettatore tipo, con un sesso e un’età definiti. Ci guardano persone dai 4 ai 100 anni, con un Nobel o la terza media. Sono accomunate dalla curiosità, dalla voglia di scoprire e io mi sento non professore, ma studente fra gli studenti».

Meno fare accademico, quindi.

«Non bisogna mai pretendere di imporsi, ma mettersi al servizio di chi guardi. La divulgazione è per sua natura servizio pubblico, qualunque sia il canale, qualunque sia il mezzo. Il servizio pubblico ormai non è più proprietà di un’emittente, ma di chiunque faccia contenuti di qualità».

Cosa sulla quale Mediaset sembra voler puntare di più, ultimamente: la Merlino, la Berlinguer. C’è una nuova centralità dell’informazione?

«Per me questa centralità esiste da sei anni. Il fatto che io sia andato a Mediaset, decidendo di tornare a fare il libero professionista e rinunciando con ciò ad una dirigenza e ad un contratto a tempo indeterminato in Rai, è figlio di una possibilità precisa: mi è stata offerta l’opportunità di un progetto che ha sempre previsto qualità e attenzione al contenuto. Oggi, mi trovo in una situazione identica a quella di allora. C’è rispetto, collaborazione, c’è condivisione con la proprietà».

Come riassumere questa nuova stagione?

«Con una parola, “vertigine”. Non l’abbiamo scelta a tavolino, ma girando ci siamo accorti che le vertigini l’avrebbero fatta da padrone per tutta la stagione. Burroni, cascate, spuntoni di montagne. Siamo stati in Italia, in Grecia, in Portogallo, in Egitto».

Girare in Italia ha un qualche effetto positivo sul nostro turismo, da sempre (e per posa) un po’ esterofilo?

«Direi di sì. Mi è bastato vedere che lo scorso anno il 90% delle persone, circa, ha scelto di fare vacanze in Italia. Spesso, poi, i luoghi in cui giriamo ci ricontattano per raccontarci di un boom delle visite, cosa successa anche agli Uffizi, che sono già il museo più visitato d’Italia».

L’effetto MasterChef esiste anche nella divulgazione, allora.

«Eccome. Ad Alessandria, nel mezzo della campagna, c’è un museo minuscolo – appena due stanze – dedicato alle origini di Cristoforo Colombo. Abbiamo girato una puntata lì e, dopo la messa in onda, ci ha contattato la direzione. “C’è fuori la fila fuori non abbiamo mai avuto”. La condivisione della conoscenza porta alla scoperta e vince la pigrizia».

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