Roma, le mostre di Fotoleggendo 2012

© Sebastian Liste/Reportage by Getty Images

Sebastian Liste, Urban Quilombo.

Mostra a cura di Patrik Di Nola.


"Questo progetto è la testimonianza di un luogo che non esiste più. Nel 2003 decine di famiglie hanno occupato "Galpao da Araujo Barreto", una fabbrica di cioccolato abbandonata a Salvador de Bahia, in Brasile. Prima di stabilirsi in questo luogo, queste stesse famiglie vivevano nelle strade pericolose della città, ma stanche di vivere contornate da tanta violenza e disperazione, si sono riunite per impossessarsi della fabbrica abbandonata, che giaceva in rovina, e l’hanno trasformata in una casa. Dal 2009 ho documentato la comunità di Barreto. Dai miei studi di sociologia, ho capito che questa comunità era unica. Questa vasta sottocultura all’interno della più grande città era diventata una famiglia allargata. In questo luogo le famiglie hanno creato un microcosmo in cui i problemi di droga, prostituzione e violenza potessero essere affrontati con il sostegno della comunità. Barreto era un luogo dove lo scambio di idee, beni e servizi ha creato un legame di identità che ha permesso la sopravvivenza dei suoi membri in una società che li emarginava. Dopo la mia prima visita nel 2009 sono tornato molte altre volte fino a marzo 2011, quando il governo ha sfrattato le famiglie dalla fabbrica, in uno dei molti tentativi di ripulire la povertà visibile dal centro delle città del Brasile. Questo è dovuto principalmente agli eventi internazionali che il Brasile ospiterà nei prossimi anni, tra i quali la FIFA World Cup 2014 e i Giochi Olimpici del 2016. Il Brasile è in procinto di violare i diritti umani se continuerà a perseverare con lo spostamento di favelas in un modo così sconsiderato."


© Gianni Berengo Gardin/Contrasto

A SINISTRA:  Corso Vittorio Emanuele II. Da sempre punto di passaggio privilegiato per la città.

A DESTRA:  Gli stessi portici ora colmi di silenzio.


Gianni Berengo Gardin, L'Aquila prima e dopo

A cura di Alessandra Mauro e Suleima Autore per Contrasto

Museo di Roma in Trastevere, 26 settembre - 11 novembre 2012


"La città dell’Aquila prima e dopo il terremoto, in un percorso espositivo che presenta la toccante testimonianza di un grande maestro della fotografia a tre anni dalla tragedia del 6 aprile 2009. Il rapporto tra Gianni Berengo Gardin e L’Aquila risale a 16 anni fa, quando il fotografo aveva immortalato il calore della gente e la straordinaria archittettura della città. Dopo anni di lavoro sul posto, il fotografo è tornato per testimoniare con le proprie fotografie lo stato in cui è ridotta, dopo il terremoto, una città bloccata e ferita, con un centro storico trafitto da impalcature, nascosto da teli e travi, strade una volta brulicanti di suoni e di vita, ora deserte. Oltre alla documentazione delle condizioni in cui L’Aquila versa dopo il sisma, con le sue immagini Berengo Gardin compie un raffronto diretto, duro e inevitabile, tra il prima e il dopo. Un atto doloroso, ma dovuto, nei confronti di chi quotidianamente vive esiliato dalla propria vita, in un tessuto urbano che non lo rappresenta più. Con il suo speciale e classico stile, in linea con la grande tradizione della fotografia impegnata, Berengo Gardin traccia un ritratto sentito, vibrante e come sempre attento, alla realtà sociale di una città ferita che è, divenata il simbolo del nostro paese. “La cosa più impressionante”, racconta il fotografo è “il silenzio che c’è per le strade. Non passa nessuno; non c’è nessuno. Non ci sono i bambini che giocano, le donne che fanno la spesa, la gente che va in ufficio. C’erano solo quattro cani abbandonati che giravano. Ed io, che sono abbastanza vecchio, ricordo a Roma com’era San Lorenzo dopo il bombardamento degli americani. Avevo 14 anni ed era la stessa cosa. I cani randagi che giravano abbandonati per la città, le case puntellate e questo silenzio di morte”. Accompagna la mostra un volume pubblicato da Contrasto e One Group."


© Gianni Berengo Gardin/Contrasto

Gianni Berengo Gardin, L'Aquila Prima e dopo.

SOPRA: Piazza S. Margherita. Il Palazzetto dei Nobili e Palazzo Camponeschi.

SOTTO: Piazza S. Margherita. La trasfigurazione


Alessandro Cosmelli

Alessandro Cosmelli e Gaia Light, Brooklyn Buzz

A cura di Tiziana Faraoni
Officine Fotografiche, dal 4 al 31 ottobre


Brooklyn Buzz è il titolo di un progetto fotografico realizzato a bordo di autobus di linea a Brooklyn, il più popoloso dei cinque boroughs della città di New York. Brooklyn Buzz è un ritratto simbolico dell'America di oggi liberamente ispirato alla serie From the Bus,1958 di Robert Frank, grande maestro di stile, coraggio e visione. Il progetto nasce dalla volontà di ritrarre l'America in questo particolare momento storico e come omaggio a Brooklyn, oggi globalmente considerata "the hot spot”, luogo più cool del pianeta di cui tutti parlano ma che, in realtà, pochi conoscono veramente. Geograficamente vastissima, etnicamente eterogenea, culturalmente vitale, Brooklyn rappresenta il paradigma perfetto di questa America, con tutte le sue contraddizioni, tensioni sociali e razziali, i contrasti ma anche la sua straordinaria energia. Il vetro del bus attraverso cui sono state scattate le foto funge da filtro, lente d'ingrandimento, schermo su cui l'incontro di riflessi e riflessioni produce imprevedibili frammenti di verità immortalati dall'autobus. Attimi catturati in movimento e per questo affidati alla casualità di incastri che raccontano storie di vita e di strada, trascendendo l'aspetto documentaristico e svelando l'anima di una delle realtà più interessanti d’America. Le foto esprimono tutto ciò e lo fanno in modo forte, intenso, spiazzante. Sono immagini la cui forza visiva allontana dalla dimensione temporale, lasciando spazio all'Universalità di vissuti e micro storie, senza spazio né tempo.


Gaia Light

Alessandro Cosmelli e Gaia Light, Brooklyn Buzz.


Gigi Riva

Gigi Riva, Sarajevo mon amour


"Non sono un fotografo ma un giornalista. Se durante l'assedio di Sarajevo ho deciso di scattare alcuni rullini è perché ero ossessionato dal paragone col ghetto di Varsavia di cui esisteva solo la fortuita documentazione di un dilettante. Volevo rimanesse traccia dell'urbicidio, dello scempio di una capitale europea alla fine del Ventesimo secolo. Pensiero ingenuo e velleitario: Sarajevo era piena di fotografi e cameramen che hanno mandato nel mondo le immagini della città-martire.

Eppure chiunque sia stato dentro l'assedio ha sentito la missione di dover raccontare e non solo col suo media abituale. Le mie fotografie sono rimaste nel cassetto per vent'anni. Non sono immagini di guerra in senso stretto. Raffigurano la vita ordinaria di Sarajevo sotto le bombe e il tiro dei cecchini. Avevo deciso di non vivere all'Holiday Inn, l'hotel del giornalisti, ma di abitare in una casa del centro, di condurre la vita del sarajevese. Grazie a quel vantaggio logistico e al fatto che non dovevo per forza inseguire la notizia di giornata, ho potuto concentrarmi sui volti, sul paesaggio urbano, sulle difficoltà quotidiane di quella enorme prigione allargata.

Dalle foto spero che emerga, assieme alla disperazione, anche l'estrema dignità di quegli abitanti che decisero di non piegare la testa e di simulare la normalità come forma di resistenza. Rimasero “urbani”, perché non tradire le belle abitudini della loro città cosmopolita equivaleva a impedire la vittoria di chi li colpiva dalle alture.


Gigi Riva, 53 anni, caporedattore de “L'Espresso”.  


Gigi Riva

Gigi Riva, Sarajevo mon amour


Gigi Riva

Gigi Riva, Sarajevo mon amour


Gigi Riva

Gigi Riva, Sarajevo mon amour


Paola Fiorini e Beatrice Mancini

Paola Fiorini e Beatrice Mancini

Love Camping: apologia dello stanziale, Premio Portfolio Italia 2011.


"La felicità è andare in ferie per 10, 20, 40 anni con la roulotte posta nella stessa piazzola, del medesimo camping al lago, con gli stessi amici che magari sono anche i vicini di casa. Sono famiglie del nord Italia di operai e impiegati, di artigiani e piccoli imprenditori che sono stati operai. Sono i laboriosi rappresentanti del ceto medio che amano la semplicità e la concretezza, i loro nonni furono contadini, le loro famiglie sono l’ultima evoluzione dell’archetipo della millenaria famiglia della Civiltà Contadina Padana. Ma con l’ultimo dittico, che mostra la messa in vendita della roulotte da parte di una giovane famiglia di oggi, Paola Fiorini e Beatrice Mancini danno forma compiuta all’idea centrale della loro opera: “l’ideale del camping stanziale della famiglia dell’Italia del benessere non lo è più condivisibile da chi vive oggi nell’epoca della precarietà”. La contemporanea presenza nel camping delle due mentalità diventa segno del sofferto attraversamento dal ‘900 al nuovo millennio. A differenza delle ricerche fotografiche di critica sociale sulla “middle class” americana, in quest’opera, dai colori desaturati, la capacità delle autrici di rapportarsi empaticamente col soggetto e di vederne i segni pregnanti, ben rappresenta anche il loro sentimento di discendenza antropologica da questa umanità giunta al tramonto. "


Paola Fiorini e Beatrice Mancini

Paola Fiorini e Beatrice Mancini, Love Camping: apologia dello stanziale


Paola Fiorini e Beatrice Mancini

Paola Fiorini e Beatrice Mancini, Love Camping: apologia dello stanziale


Paola Fiorini e Beatrice Mancini

Paola Fiorini e Beatrice Mancini, Love Camping: apologia dello stanziale


Irina Werning


Irina Werning


Irina Werning

Irina Werning, Back to the future a cura di Marco Pinna

"Irina tende a semplificare: “Mi piacciono le vecchie foto”, dice. “E quando entro in casa di qualcuno divento curiosa, vado a caccia di immagini. Poi cerco di reinscenare quelle foto di tanto tempo fa, invitando la gente a tornare indietro al proprio futuro...”

Ma Back to the future non è affatto un lavoro semplice; è il frutto di un processo lungo e laborioso, che implica una ricerca approfondita sulla luce, le angolazioni, gli obiettivi e le pellicole. Per non parlare degli abiti e degli oggetti, indispensabili per la buona riuscita di un lavoro del genere; oggetti spesso introvabili che Irina va cercando ovunque, spulciando nelle botteghe dell’usato della sua città, Buenos Aires, su siti internet, prendendo a noleggio o in prestito dagli amici vecchi abiti e accessori, a volte mettendosi a cucire, a tingere, a incollare... Come dice lei stessa, “Mi piace molto trovare le cose. E se non riesco a trovarle, le faccio io”. Back to the future è un lavoro fotografico di grande impatto, che colpisce con forza non solo gli addetti ai lavori, ma chiunque abbia occasione di vederlo. Nel commentare queste fotografie, il termine che viene alla mente è “geniale”, e il segreto di questa genialità è molto semplice: dietro a Back to the future c’è un’idea azzeccata, che contribuisce a colmare il grande vuoto creativo che si è venuto a creare nel mondo della fotografia del XXI secolo."


Irina Werning


Alexandra Serrano


Alexandra Serrano

Alexandra Serrano, Between Finger and Thumb
Premio Exchange Boutographies de Montpellier/FotoLeggendo 2012.

"Tra Pollice e Indice è l’autobiografica e auto-riflessiva parte di un lavoro che affronta il tema della memoria in ambito familiare e il suo ambiente domestico. Ai fini di questo lavoro Alexandra Serrano ha utilizzato la macchina fotografica come strumento di produzione e ri- diffusione del ricordo all’interno della propria casa d’infanzia. Per farlo, ci ha presentato scenari che propongono il ludico concettualismo dello still life, creando e fissando scenografie che si basano interamente sul valore simbolico di oggetti quali ricordi di persone, sentimenti perduti ed eventi passati. Se da una parte il progetto esplora il complesso meccanismo della ricostruzione della memoria mettendo in discussione la veridicità delle nostre singole storie, dall’altra riflette anche sulla psicologia di uno spazio caro a tutti. Un luogo che è anche teatro dei più sinistri problemi che ospita nei suoi più oscuri recessi e dimenticati margini i resti di passati conflitti e drammi familiari. "


Alexandra Serrano


Massimo Berruti

Massimo Berruti, Lashkars a cura di Renata Ferri

"Il nome Lashkars è antico quanto l'Islam, storicamente son i guerrieri tribali posti a difesa contro gli infedeli e gli invasori. Ai giorni nostri i Lashkars sono milizie tribali tradizionali, spesso formate per il compimento di compiti specifici. Queste milizie non rappresentano una novità nella storia delle Federal Administred Tribal Areas (FATA), ma questa volta in conseguenza ai benefici prodotti, sono state utilizzate anche in altre zone di confine. Dopo la vittoriosa operazione militare del 2009 perpetrata contro i Talebani nella valle dello SWAT, il loro impiego è stato approvato a supporto dell'esercito Paistano nell'equilibrio del mantenimento della pace.

In questa valle i Lashkars pattugliano notte e giorno i territori dentro e intorno ai loro villaggi nel tentativo di contrastare nuove infiltrazioni di militanti sul territorio. Guardando dall'altra parte del confine, queste milizie auto organizzate, sono un vivido esempio di come la strategia Americana di contro insurrezione dovrebbe veramente funzionare una volta che gli eserciti della coalizione avranno fatto ritorno a casa dall'Afganistan. I componenti dei Lashkars sono tutti membri maschili di famiglie tribali, i quali spesso rappresentano la sola fonte di sostentamento per i loro nuclei famigliari, ma accettano il loro ruolo pur sapendo che non vi sarà alcuna forma di risarcimento per i loro cari in caso dovessero morire durante un combattimento.

Non percepiscono un salario per i servizi che rendono alla società civile.
Sono persone fortemente religiose. La loro storia rappresenta un elemento contrastante rispetto alla concezione occidentale che riguarda i Pashtun, troppo spesso considerati meramente spietati, ignoranti e violenti. Una cultura largamente e frequentemente accusata di essere la sorgente primaria dell'estremismo islamico. Per questo ho ritenuto importante raccontarla Il lavoro cerca di mostrare il loro impegno sulla linea del fronte nella lotta contro quello stesso estremismo islamico, la loro intimità, così come la loro determinazione nel non arrendersi di fronte alla costante paura di un nuovo regime Islamista."


Massimo Berruti


Massimo Berruti


Massimo Berruti


Matteo Bastianelli

Matteo Bastianelli, The Bosnian Identity, a cura di VisiOnAir

"Le facciate di case e palazzi sono piene di ferite aperte. I fori delle mitragliatrici e le chiazze bianche del calcestruzzo usato per coprire i vuoti creati dalle bombe, sembrano costellazioni immaginarie disegnate su tutto il territorio della Bosnia. La memoria, malgrado il tempo trascorra inesorabilmente, è intrisa di cicatrici, ma non è la distruzione a richiamare alla mente l’orrore della guerra, né soltanto il dolore per le perdite subite, piuttosto il tentativo quotidiano di recuperare migliaia di identità nascoste, molte forse perdute per sempre. Non è stato facile avere un'infanzia in Bosnia. Nihad, Tarik, Sucur e i "ragazzi della banda" vengono dalla strada. E le leggi della strada gli hanno insegnato a poter contare solo su se stessi. Molti di loro sono stati più o meno consapevolmente influenzati dal "mito" dei profittatori di guerra e dal miraggio di un guadagno facile, dove la legge del più forte sembrava essere l'unica regola possibile. I bambini lì sono cresciuti in fretta. Hanno dovuto lottare per sopravvivere. Adis Smajic aveva 13 anni quando una mina antiuomo lo ha ridotto in fin di vita. Stava andando a giocare a calcio con un amico. Dopo tante operazioni, la perdita dell'occhio sinistro e del braccio destro, ce l'ha fatta. Solo quattro anni prima aveva perso il padre e il nonno, entrambi uccisi durante l'assedio. Oggi Adis è un uomo sposato. “E per la prima volta nella mia vita -afferma- sono felice". The Bosnian Identity è un viaggio nella memoria della Bosnia. Una nazione bloccata tra voglia di rinascita e spinte al nazionalismo, in una transizione ancora presente tra passato e futuro. "



© Nicola Lo Calzo, Morgante /LUZphoto agency e Afrique in Visu


© Nicola Lo Calzo, Morgante /LUZphoto agency e Afrique in Visu


© Nicola Lo Calzo, Morgante /LUZphoto agency e Afrique in Visu

Nicola Lo Calzo, Morgante

"Un legame di identità che ha permesso la sopravvivenza delle persone in una società dalla quale erano stati emarginate. Morgante narra le storie private di individui legati tra loro da un comune denominatore: l’essere nani.Morgante, soprannominato ironicamente il Gigante nell'omonimo poema di Luigi Pulci, era il più celebrato dei cinque nani della corte medicea a Palazzo Pitti. Fu sempre rappresentato, secondo il gusto e la cultura dell’epoca, come un “monstrum”. Passando per le tele del Bronzino e le sculture del Giambologna, il nano Morgante, disumanizzato e spogliato della sua individualità, diventa progressivamente un’idea, un archetipo, la lente attraverso la quale la “famiglia umana” continua a guardare la diversità nei secoli. A partire da questa corrispondenza letteraria e iconografica, l’Africa centrale rappresenta per il fotografo l’occasione per offrire un’inedita galleria di ritratti sull’universo dei nani, una categoria di persone completamente emarginate in alcuni paesi africani. Spesso associate alla stregoneria, le persone affette da nanismo vivono in uno stato di semiclandestinità, confrontati quotidianamente a ogni genere di violenza psicologica. Il fotografo sceglie di fotografare i suoi soggetti nella loro vita privata, in casa, al lavoro, in strada: nelle fotografie di Lo Calzo, Fidel, Kwedi, Babel non sono vittime della loro taglia. Al contrario, sono i primi artefici della loro vita, protagonisti assoluti della scena rappresentata. Lo Calzo mette in scena una rappresentazione della diversità come valore e auto-accettazione: ogni soggetto fotografato fissa l’obiettivo, alla ricerca dello sguardo dell’osservatore. È padrone della scena, attore e interprete di se stesso. In alcune società africane, ancora fortemente polarizzate attorno ai concetti di normalità e anormalità, bene e male, tradizione e modernità, Morgante vuole essere un invito a rompere questa panoplia del “monstrum” per giungere al pieno riconoscimento della diversità."


Massimo Siragusa

Massimo Siragusa, Isole, a cura di Fabio Severo
Per Instant Collection Project

"Il progetto vuole creare una raccolta di lavori che illustri i tanti modi in cui artisti con percorsi differenti scelgono di ripensare il proprio linguaggio utilizzando la pellicola istantanea. Con Isole, Massimo Siragusa riprende le pellicole istantanee dopo lungo tempo, lasciate in un mondo fatto di ricordi privati: oggi l'immediatezza dell'istantanea lo porta a una deviazione intima da quell'analisi del territorio e della sua rappresentazione che porta avanti da diversi anni. Il paesaggio diventa così memoria, viene interiorizzato e riscoperto. Isole è composto da una serie di immagini realizzate in Sicilia, nei luoghi della storia personale dell’artista, intrecciate con vedute della Roma monumentale del centro storico e dei grandi parchi, con le sue reminiscenze da Grand Tour e l’eccellenza della città d’arte. Nell’incontro fra la terra delle proprie origini e quella d’adozione, nello spazio stretto ed emotivo dell'istantanea si fonde il paesaggio ricordato, personale della Sicilia e quello eterno di Roma, con la sua bellezza maestosa e consapevole: la Sicilia diventa così un territorio da esplorare con la memoria per rifarlo proprio, mentre Roma diventa il paesaggio da dimenticare per confrontarsi di nuovo con la sua immagine universale, e provare a reinventarla con un altro sguardo."

Instant Collection Project è un ciclo di esposizioni in cui ars-imago invita diversi fotografi a lavorare con le pellicoleImpossible Project, i nuovi supporti a sviluppo istantaneo per macchine fotografiche Polaroid.


Massimo Siragusa


Bengasi, Libia, marzo 2011 - Sul muro la foto di uno dei martiri della guerra civile.

Riccardo Venturi, Shadows, i martiri della rivolta libica

A cura di Stefano Simoncini

"Sembrano fantasmi i martiri libici, che guardano o muoiono da carte strappate e consunte, che rendono l’idea del tempo e della storia, della lotta della memoria contro l’oblio, e del difficile senso che da eventi così violenti e tragici si può ricavare. Foto di manifesti, cioè ritratti di ritratti, che allontanandoci dal soggetto come in un cannocchiale al contrario, in realtà ci proiettano violentemente nel suo mondo, nella sua solitudine ultima, nel dolore assoluto suo e dei suoi familiari. Un’idea fortissima quella di Venturi, quanto mai opportuna in una guerra e in una rivolta come quella Libica, che risultano quanto mai opache, dove la propaganda ha giocato un ruolo sporco, mettendo in secondo piano un’informazione sana, quella che dovrebbe parlare dei desideri e dei bisogni, delle rivendicazioni e delle sofferenze del popolo, che dalla storia è stato schiacciato, ieri e oggi. E veniamo così proiettati, tra ritratti di ritratti, che infine sono ritratti al quadrato, e solitudini di detriti, muri sventrati, mobili rovesciati come giocattoli, in quel caos che è anche perdita di senso, cancellazione, con l’intento di usare quelle cancellazioni come una pagina su cui cominciare a riscrivere un ricordo, un pensiero umano. "


Riccardo Venturi  

Bengasi, Libia, marzo 2011 - Sul muro la foto di uno dei martiri della guerra civile.


Riccardo Venturi

Bengasi, Libia, marzo 2011 - Sul muro la foto di uno dei martiri della guerra civile.


Riccardo Venturi

Bengasi, Libia, marzo 2011 - Quartier generale bruciato.


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