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Mulè: Annamaria Cancellieri, un’italiana vera

Al ministro della Salute arriva la telefonata di una vecchia amica. È in lacrime. Le racconta che hanno diagnosticato alla figlia un brutto male. Il ministro si informa con l’amica e le dice: «Posso fare qualcosa?». L’amica risponde: «Sai, se si potesse far visitare al più presto dal professor Gesualdo Pinzellaccheri dell’Ospedale di Roccacannuccia...».
A questo punto il ministro può:
1) telefonare al professor Pinzellaccheri e chiedere se visita la figlia dell’amica;
2) far finta di nulla e lasciare la figlia dell’amica al suo destino (che potrebbe essere anche la morte).

Fra queste due opzioni passa la differenza tra una persona perbene e un cinico senza cuore. Annamaria Cancellieri è stata ed è una persona perbene. Non ha rinnegato (come le sarebbe convenuto fare) la conoscenza con una famiglia che non passerà alla storia del buon capitalismo, né si è voltata dall’altra parte (come suggeriscono adesso i soloni della morale). Ha fatto benissimo a segnalare il caso di Giulia Ligresti al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, guai se non l’avesse fatto. Perché con il suo intervento non ha calpestato i diritti di altri detenuti, né ha privato altri dei loro diritti. Prima di scagliare la pietra contro Annamaria Cancellieri bisognerebbe che tutti (giornalisti compresi) facessero un serio esame di coscienza e rispondessero a questa semplice domanda: nella mia carriera mi è mai capitato di chiedere un intervento a una personalità pubblica con responsabilità di amministratore (sindaco, parlamentare, sottosegretario, ministro) per un mio amico in difficoltà, senza violare tuttavia alcuna legge?

Noi italiani, per fortuna, in maggioranza siamo fatti così: se c’è da alzare il telefono per aiutare qualcuno, lo facciamo. Anche se si chiama Ruby, ebbene sì. Che aveva raccontato una storia che inteneriva e che solo qualche tempo dopo si è rivelata un po’ farlocca (con il non trascurabile orpello che in primo grado è costato all’«amico» una condanna a 7 anni per concussione, nonostante che il presunto concusso non si sia accorto della concussione).
Qual è allora il problema? Il cognome Ligresti? Il surplus d’odio istintivamente dovuto nei confronti di una famiglia che ha vissuto nel lusso mentre saccheggiava senza ritegno le aziende? Chi lo sostiene farebbe bene a traslocare nella giungla, in una capanna prossima alla tana degli sciacalli. In una democrazia che ha fondamenta solide, e non conosce sentimenti come odio e vendetta, si arrestano i Ligresti se ci sono fondati motivi e si celebra il processo. Non dovrà esserci mai nessuno, dico nessuno, che possa pensare di affievolire il loro diritto alla vita e alle garanzie costituzionali.

E se il ministro della Giustizia conosce da 30 anni la famiglia dei «malfattori», questo non significa che debba girarsi dall’altra parte nel momento in cui, da quella famiglia, le viene segnalata una situazione di pericolo per la figlia del patriarca, Giulia, costretta a misurarsi da anoressica con la disumana realtà della carcerazione preventiva. Perché ogni essere umano ha diritto alla dignità, perché è giusto e perché l’amicizia non è una colpa. A meno di non voler introdurre nel sistema penale la proprietà transitiva per cui se Ligresti è un ladro anche i suoi conoscenti sono ladri. E allora bentornati nella giungla dove, a seguito dell’involuzione del diritto, non si usano più bastone e carota ma si preferiscono bastone e garrota.

Un popolo che non conosce la pietà non sarà mai libero, mi ha scritto il professor Stefano Zecchi commentando il caso Ligresti. E chi può dargli torto? «La giustizia senza castigo è utopia, il castigo senza misericordia è crudeltà» ammoniva San Tommaso. Il rischio è che l’Italia, immersa da 20 anni in una dissennata cultura dell’odio, smarrisca non solo la strada della comprensione e della pietà, ma anche quella estrema della misericordia.

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