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Figli e famiglia, la verità di Dolce e Gabbana

La notizia dell'intervista a Dolce e Gabbana, a cui Panorama ha dedicato la copertina del numero uscito il 12 marzo in edicola, ha provocato subito moltissime reazioni, soprattutto in rete. C'era chi si diceva d'accordo con le posizioni dei due stilisti sulla famiglia e sulla procreazione, e chi invece si è immediatamente indignato. Ma il clamore più grosso è quello seguito al post su Instagram in cui Elton John invitava il popolo del web a boicottare i due stilisti italiani. Il dubbio, legittimo (soprattutto nel caso degli stranieri), è che molti abbiano parlato e criticato senza nemmeno leggere le parole dell'intervista di Dolce e Gabbana. Che ora pubblichiamo qui di seguito.

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Stefano Gabbana e Domenico Dolce in una foto d'archivio
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Stefano Gabbana e Domenico Dolce in una foto d'archivio
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Stefano Gabbana e Domenico Dolce nel 2001
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Stefano Gabbana e Domenico Dolce nel 2001
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Stefano Gabbana e Domenico Dolce nel 2012
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Domenico Dolce e Stefano Gabbana durante una partita Milan-BArcellona allo stadio Meazza nel 2012. ANSA/MATTEO BAZZI
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Stefano Gabbana e Domenico Dolce durante la settimana della moda milanese in una foto d'archivio del 17 gennaio 2011. ANSA / MATTEO BAZZI
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Stefano Gabbana e Domenico Dolce nel 2009. DANIEL DAL ZENNARO/ANSA
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Stefano Gabbana e Domenico Dolce nel 2009.
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Gli stilisti Stefano Gabbana (sinistra) e Domenico Dolce salutano gli ospiti al termine della sfilata Dolce&Gabbana, 23 settembre 2012, in occasione della settimana della moda donna primavera estate 2013. ANSA / MATTEO BAZZI
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Stefano Gabbana e Domenico Dolce nel 2012. MATTEO BAZZI / ANSA
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Gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana al termine della presentazione della collezione primavera - estate 2012


All’ultimo piano del loro quartier generale in viale Piave, a Milano, il sole entra dalle grandi finestre. Stefano Gabbana si alza veloce dal divano in raso e cerca di chiudere le tende. Ha un maglione nero attillato, sneakers e jeans, un po’ di rimmel sugli occhi azzurri. Domenico Dolce lo guarda dalla porta dell’ascensore, in silenzio, gli occhiali appoggiati sulla testa come un regista e un maglioncino grigio da ragazzino al college. Immensi vasi di rose e i ritratti della coppia d’oro della moda italiana alle pareti. "Abbiamo appena finito la sfilata e già si ricomincia a lavorare, lavoriamo sempre". A sette anni Dolce cuciva pantaloni nella sartoria del padre a Polizzi Generosa, un paesino sperduto nelle Madonie, in Sicilia, e Gabbana puliva pavimenti e bagni a Milano, aiutando la madre, che andava a servizio. Due storie da self-made man come in un romanzo di John Steinbeck.

E, raccontano a Panorama, gran parte del loro successo lo devono a chi li ha cresciuti. Forse anche per questo hanno deciso di dedicare il loro ultimo progetto proprio alle famiglie, lanciando una campagna per raccogliere da tutto il mondo un album fotografico unico. Il progetto #DGfamily partito nel 2013 ha messo insieme più di 4 mila scatti da 10 Paesi, dall’Italia alla Russia, dalla Francia agli Stati Uniti. Una documentazione straordinaria e inaspettata che è diventata oggetto di uno studio all’Università Cattolica di Milano. Saranno gli stilisti stessi a discuterne con gli studenti per spiegare come siamo cambiati.

Che cos’è la famiglia per Dolce&Gabbana?
Gabbana: Guardando le migliaia di scatti che ci hanno inviato abbiamo capito che la famiglia non è una moda passeggera. È un senso di appartenenza sovrannaturale. Abbiamo deciso di realizzare questo progetto quando notammo che la gente copiava le nostre campagne pubblicitarie, mettendo i familiari in posa, vestiti di tutto punto e poi postando le foto sui social network. Ci siamo guardati e detti: è semplicemente geniale. La gente ha bisogno di appartenenza.
Dolce: Non abbiamo inventato mica noi la famiglia. L’ha resa icona la Sacra famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo i figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a questi bambini chi è la madre. Ma lei accetterebbe di essere figlia della chimica? Procreare deve essere un atto d’amore, oggi neanche gli psichiatri sono pronti ad affrontare gli effetti di queste sperimentazioni.

Avete ricevuto migliaia di immagini, uno studio antropologico unico che racconta come siamo diventati. A voi come sembra che siamo diventati?
G. È come nel Gattopardo, tutto deve cambiare perché tutto resti come è. Ed è rimasto tutto uguale. Tutto, esattamente: le famiglie di allora e quelle di oggi, le medesime tensioni, i problemi sempre i soliti. Le giovani modelle sono con i loro figli esattamente come le loro madri, le stesse paure, le stesse angosce.
D. Poco tempo fa ho letto un libro di Colm Toibìn sulla vita della Madonna: Il testamento di Maria. È il racconto di una donna sola, disperata per la morte di un figlio che non riusciva a capire, una che si lamentava perché lui le portava a casa solo gente poco raccomandabile. Anche la Madonna era una madre normale, con le ansie di ogni madre. di scegliere. Lei diceva che i nostri vestiti erano bellissimi, poi non ne ha mai messo uno e forse non li guardava neanche, ma per incoraggiarmi diceva che tutto quello che facevamo era meraviglioso.

Come è stato fare coming out in famiglia?
G. Mia madre lo venne a sapere da un telegiornale, fu difficile all’inizio. Mi fece una scenata: Cosa dico alla vicina? Nulla, non dirle nulla mamma. E poi se amo un uomo o una donna che importanza ha per te? Lei mi guardò e poi mi disse: «"È vero, non ha nessuna importanza".
D. Ho sempre saputo di essere omosessuale, ma a Polizzi non si poteva parlare, era difficile. Portavo a casa delle fidanzate, decisamente poco carine. E lei, mia madre, le criticava e si arrabbiava perché erano brutte. Per Stefano, invece, ha avuto molto affetto, si sono capiti subito.

Insomma, la madre sembra essere il centro della famiglia. E il padre?
G. Mio padre era taciturno, un veneto gran lavoratore, l’ho sempre visto sgobbare. Al bar Motta in piazza Duomo faceva il barista. Poi fu operaio alla stamperia Rusconi, se aveva il turno di notte di giorno faceva il parquettista e lavava i vetri. È morto l’anno scorso, si era ammalato per tutti quei lavori svolti senza protezioni. Alla fine volevo che andasse: aveva 87 anni, era stanco, non se la sentiva più di vivere. Non ce la faceva più a fare le cose che piacevano a lui: andare a pesca, a funghi. Non vorrei finire la mia vita su un letto, meglio morire mentre balli in discoteca. Mentre ti diverti, non ci pensi e la vita ti lascia così.
D. C’era già lei a fare la dura. Una che comandava in casa bastava, lui non parlava molto, ma mi ha saputo capire.

Avreste voluto essere padri?
G. Sì, io un figlio lo farei subito.
D. Sono gay, non posso avere un figlio. Credo che non si possa avere tutto dalla vita, se non c’è vuol dire che non ci deve essere. È anche bello privarsi di qualcosa. La vita ha un suo percorso naturale, ci sono cose che non vanno modificate. E una di queste è la famiglia.

Avete molte donne che lavorano per voi e raccontano che siete tra i pochi nell’ambiente a sostenerle tra figli e carriera.
G. Se potessi, costruirei anche un asilo dentro l’azienda. Abbiamo sempre accettato con gioia le gravidanze delle nostre collaboratrici e notato come alcune avessero così tanto amore per il loro lavoro da tornare anche dopo una settimana. Ma questo è un Paese destinato a fallire, se non cambiano certe leggi: le donne da un lato lamentano una disparità, ma dall’altro possono assentarsi dall’ufficio anche fino a tre anni per una maternità e poi tornare e pretendere lo stesso incarico di prima. A Hong Kong una donna deve riprendere il suo posto dopo 15 giorni dal parto. Forse è troppo poco, ma tre anni è una follia.

I vostri genitori hanno avuto matrimoni lunghi, sono stati insieme per tutta la vita. Come si fa?
G. Sessant’anni insieme, i miei, beati loro. Un tempo si faceva così e basta. Mio padre tornava a casa dopo tutti quei lavori e sapevo che aveva bevuto, non è mai stato violento con noi, ma la mamma si lamentava continuamente, pensò anche a separarsi. Ma dopo un po’ di anni si arriva alla simbiosi e si rimane insieme.
D. Si sono sposati quasi vecchi, lei aveva 32 anni e lui 40. Rosaria mi ha insegnato che l’amore non esiste, ma si costruisce, il resto è solo infatuazione. E credo che tra i miei genitori sia stato così: non so se si siano amati fin da subito, ma hanno costruito qualcosa che è durato. A volte litigavano ferocemente, ma era più la recita di un copione da famiglia del Sud. Ricordo un giorno a tavola, ero piccolo e scoppiai a piangere mentre loro urlavano, rimasero colpiti e da quella volta smisero.

Tra di voi, invece, ci sono stati vent’anni d’amore.
G. Sì, vent’anni d’amore, poi la nostra storia si è trasformata. Ci siamo lasciati restando insieme. Ancora oggi condividiamo tutto: azienda, pensieri, progetti, vacanze insieme con i nostri nuovi fidanzati. Domenico è la mia famiglia, è l’amore della mia vita. Il nostro è un amore infinito.
D. Ci siamo molto amati. La gente confonde l’amore con il sesso. Il nostro era amore e per noi sarà sempre così. Mi sono trovato in tutto con Stefano. Succede solo quando ti piace troppo una persona. L’altra sera guardavo il film Stregata dalla luna con Cher e un amico mi faceva notare che era la parodia della mia vita con lui: i cani, i pranzi infiniti, l’inno continuo alla famiglia.

Qualunque etero vi invidierebbe: lasciarsi e continuare ad andare d’accordo, come si fa?
G. È la forza dell’amore, resta, non svanisce mai, io lo amo ancora. Quando ci siamo lasciati ho sofferto moltissimo, ma non ce la facevamo più. Per tre anni abbiamo tenuto tutto ancora in comune, conti, ufficio e case, poi ci siamo divisi. Siamo stati bravi tutti e due. D. Nel 2013 a New York dopo 35 anni ho fatto Natale senza di lui. Mi sono pentito, ho capito che avevo sbagliato, che avevo rotto qualcosa e gli avevo fatto male. L’anno scorso siamo tornati a festeggiarlo tutti insieme.

L’idea della famiglia tradizionale del Sud, legata alla Sicilia e alle radici, è stata una vostra grande intuizione, ma non è solo un mito?
G. La moda deve far sognare, trasformare la realtà. Se andassi in giro per Milano e poi creassi solo sulla base di ciò che vedo farei dei vestiti orribili. D. Non abbiamo mai rappresentato la famiglia tradizionale del Mulino Bianco. Piuttosto abbiamo cercato di dare l’idea di clan, della forza dell’unione. Mia madre ha sempre scongiurato me e i miei fratelli di restare uniti.

Avete molti nipoti: come percepite il loro mondo?
D. Solitario, confuso sessualmente, troppo libero per dare felicità. Non si vive di cool, fashion e app per vedere con chi fare sesso ogni sera. Questa generazione ha paura di investire sugli affetti, ma trovarsi da soli davanti a un televisore al plasma non è tanto allegro.

Vi sareste sposati se fosse stato possibile?
G. No, mai. Come posso giurare di amare ed essere fedele a una persona per sempre? Non ho mai creduto nel matrimonio etero o omosessuale. È una promessa che non si può mantenere.

Come vi immaginate tra trent’anni ?
G. Io e Domenico vecchi, insieme a lavorare.
D. Questo è un film che si fa lui, io assolutamente non mi voglio immaginare a lavorare, la creatività ha un suo percorso, un’età. Dobbiamo lasciare spazio ai giovani. Io mi vedo in carrozzella, alle sfilate. A guardare il nuovo che avanza.

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