David Bowie: perché "Heroes" è il capolavoro della "trilogia berlinese"

Parlophone
L'iconico artwork di "Heroes" di David Bowie
Parlophone/Masayoshi Sukita
David Bowie ha lasciato la vita terrena il 10 gennaio del 2016

Definire David Bowie semplicemente un cantante è riduttivo per il suo talento multiforme, che si è nutrito di arte figurativa, teatro, danza e letteratura, in cui canzoni erano solo il prodotto finale di un lungo processo creativo.

Bowie è stato un alieno benevolo e imprevedibile che ha dato nuovi e inattesi significati al ruolo della rockstar, spargendo per quasi cinquant’anni sul pianeta terra bellezza e arte, regalando straordinarie emozioni nel suo storytelling sui problemi di identità e sullo spirito collettivo contemporaneo.

Un camaleonte senza passato, che si è fatto messaggero di un futuro in cui l’avanguardia, pur senza abdicare alle sue ambizioni culturali, poteva essere fruita da tutti attraverso ritmi e melodie irresistibili.

Quel maledetto 10 gennaio 2016, giorno della sua morte, è stato un lunedì nerissimo per gli amanti del rock e della musica di qualità.

Ci piace pensare che quel giorno David Bowie non sia morto veramente, ma sia semplicemente tornato da dove era arrivato, dallo spazio.

Secondo Bowie “gli anni Settanta furono l’inizio del ventunesimo secolo”, ed è difficile dargli torto, a giudicare da un album che suona ancora incredibilmente moderno e innovativo come Heroes, capolavoro della trilogia berlinese e da molti condiderato uno dei migliori dischi della sua articolata discografia pubblicato il 14 ottobre 1977.

Un periodo, la fine degli anni Settanta, dominato da un lato dalla gioiosa levità della disco music, dall'altro dal furore iconoclasta del punk, mentre Heroes è un album meravigliosamente fuori tempo e, proprio per questo, ancora oggi attualissimo.

L’ex Ziggy Stardust, dopo gli anni bui del soggiorno a Los Angeles, si era trasferito con l’amico Iggy Pop a Berlino, allora capitale europea della droga e della decadenza, in un modesto appartamento al 155 di Hauptstrasse: forse non il massimo per disintossicarsi dalla dipendenza dalla cocaina, eppure funzionò a ritrovare ispirazione e serenità.

Il disco più rappresentativo della leggendaria trilogia berlinese, benedetto dal tocco magico di Brian Eno, fu concepito e registrato nello Studio 2 degli Hansa Studios.

Nell'ex sala da ballo della Gestapo, che si trovava a due passi dal muro di Berlino, il produttore Tony Visconti suggerì ai musicisti di Bowie di dare la loro personale interpretazione della glaciale perfezione sonora di gruppi tedeschi come Kraftwerk, Neu! E Cluster, pionieri della kosmische musik.

Una sala dotata di un riverbero naturale, catturato da un microfono panoramico sistemato da Visconti a un’estremità dello studio, che conferisce all'album quel sound inconfondibile, rarefatto e misterioso.

Mentre Low era uno spaccato delle psiche di Bowie, Heroes è una carrellata in bianco e nero della Berlino decadente di fine anni Settanta, dal quartiere turco fino a quello dei locali notturni frequentati da Bowie insieme all’inseparabile Iggy Pop, che stabilirà le coordinate sonore della nascente new wave e del sytnh-pop degli anni Ottanta.

Anche in Heroes si alternano canzoni pop d’avanguardia (Beauty And The Beast, Joe The Lion, Sons Of The Silent Age) a brani strumentali ambient che recano l’inconfondibile firma di Brian Eno (Moss Garden, Neukoln, The Secret Life Of Arabia).

Quasi tutte le tracce ritmiche di Heroes sono state registrate alla prima take, un approccio figlio delle celebri “strategie oblique” seguite da Eno: idee creative contenute in un mazzo di 100 carte, ideate nel 1975 insieme all’artista Peter Schmidt, che contenevano direttive vincolanti su come superare blocchi creativi o dare nuove, impreviste direzioni alle canzoni che stava incidendo.

Oltre a fornire alcune delle sue migliori prove vocali, Bowie suonò anche un koto giapponese in Moss Garden e una melodia mediorientale al sax in Neuköln.

La title track Heroes, impreziosita dalla chitarra liquida di Robert Fripp, è senza ombra di dubbio una delle dieci canzoni rock più belle di sempre.

"Arrivai con una Les Paul al collo e un grande Marshall stack -ricorda la geniale mente dei King Crimson- Il suono della chitarra fu prodotto semplicemente dai feedback".

Alla domanda sul perché Heroes è probabilmente la canzone più amata di Bowie, Fripp risponde senza indugio: "Perché in essa David sta parlando a ciò che c'è di supremo in noi".

Nell'iconica copertina in bianco e nero del disco, una foto di Masayoshi Sukita ispirata al quadro Roquairol del pittore tedesco Eric Heckel, Bowie si mostra senza le maschere che avevano caratterizzato gli album precedenti degli anni Settanta, con uno sguardo quasi assente, alieno e al tempo stesso "umano troppo umano".

YOU MAY ALSO LIKE